Siamo a Castions di Strada (Cjasteons di Strade in friulano), un piccolo comune di 3.800 abitanti circa nella provincia di Udine.
Uno dei principali luoghi di interesse del paese è la chiesa di San Martino, la più antica di Castions (risale al Duecento). La costruzione si trova un po’ fuori dal centro abitato e ha subito nel tempo numerosi rimaneggiamenti; una curiosità: intorno a essa pare sorgesse il quartiere longobardo nell’epoca in cui Castions fu presidio militare di quel popolo. L’edificio ha aula unica a pianta rettangolare e abside semicircolare. La facciata è dominata dalla mole del campanile a pigna, sul quale si aprono quattro bifore romaniche. E proprio il campanile è stato oggetto recentemente di un significativo intervento di ripristino, del quale mi sono occupato insieme a uno staff di tecnici specializzati nell’arte del restauro conservativo. Fondamentali, prima di iniziare, sono stati i sopralluoghi preventivi, al fine di identificare la tipologia di intervento più appropriata. In questa fase siamo stati messi a dura prova dall’azienda appaltante, la Sguassero di S. Giorgio di Nogaro, e dagli organi di controllo delle sovrintendenze: ogni stadio dell’intervento (ripulitura generale, consolidamenti vari, restauro e ricostruzione delle parti mancanti, rifacimento totale del tetto) doveva essere esposto nei minimi particolari, descrivendo con precisione i materiali impiegati e le tecniche dell’intervento.
Per “convincere” le sovrintendenze …
Prima che ci venisse affidato l’incarico, abbiamo avuto il nostro “bel da fare”. Abbiamo inviato ben due preventivi con le spiegazioni dettagliate dell’intervento e dei materiali e non nascondo che non è stato così semplice convincere le sovrintendenze ad accettare un sistema di ripulitura generale delle parti lapidee del campanile eseguita con una tecnica di sabbiatura a umido, modulata e calibrata sia sulle pressioni di esercizio sia sulla tipologia di inerte utilizzato. Per sabbiatura a umido si intende un sistema di pulitura che utilizza inerti e acqua combinati nel serbatoio di carico, spinti poi da un compressore volumetrico con una pressione di esercizio di circa 3-4 bar; il tutto è possibile se si ha a disposizione una buona macchina operatrice, che possa dosare bene la quantità di inerte con la relativa miscelazione con l’acqua, oltre a poter regolare la pressione di esercizio. L’ultimo ostacolo è stata la dimostrazione pratica del sistema di pulitura, che abbiamo eseguito in presenza delle sovrintendenze e dell’impresa appaltante.
Prova superata: ci è stato affidato l’appalto.
Iniziano i lavori
Il campanile era composto da blocchi di pietra carsica sino alla base della torre campanaria: da quel punto cominciava la parte in pietra chiamata “marna”, molto simile a un’arenaria, con tipiche esfoliazioni superficiali, anche consistenti. La cornice sotto il tetto era costituita anch’essa da pietra carsica. La prima fase del nostro intervento è stata la scalpellinatura della malta delle fughe tra i blocchi in pietra che componevano la struttura del campanile.
La scalpellinatura si può eseguire in maniera violenta, con i classici demolitori elettrici, o in maniera più delicata – come è stato fatto – con piccoli scalpelli ad aria compressa, facendo attenzione alle parti degradate. Le fughe, in effetti, erano state ricostruite qualche anno prima senza tener conto della tipologia di impasto originale utilizzato, si notavano infatti zone con stuccature in sabbia e calce, zone con stuccature disomogenee in cemento e altre zone ancora diverse. Oltre alle fughe un po’ “insolite”, molti blocchi di pietra si trovavano in discreto stato di degrado, con crepe, esfoliazioni e parti in fase di distacco. Il cornicione in pietra carsica alla base della torre campanaria non esisteva quasi più, solamente su alcuni tratti si distingueva ancora la forma originale della lavorazione della pietra.
La ripulitura delle superfici
Una volta terminata la fase di apertura delle fughe, è iniziata la ripulitura delle superfici – con il sistema di sabbiatura Torbo – dallo sporco meteorico e organico stratificato, dalle alghe e i licheni formatisi nel tempo e dai residui di stuccatura. Sembra un paradosso, ma il sistema di sabbiatura a umido si pratica dal basso verso l’alto e non viceversa, questo perché durante l’esecuzione dei lavori si accumula lo sporco rimosso, per cui dopo poco risulta difficile capire se si sta facendo un buon lavoro oppure se si sta solamente spostando lo sporco da un posto a un altro. Terminata la sabbiatura, abbiamo proceduto a un lavaggio con acqua delle parti in pietra, questa volta cominciando dall’alto e procedendo verso il basso.
Il fissaggio e il ripristino
Successivamente abbiamo continuato con il fissaggio delle parti di pietra carsica in fase di distacco eseguendo, ove possibile, un rinforzo strutturale previa foratura e inserimento di una barra in vetroresina adeguata alla portata, fissata con resina epossidica bicomponente.
Nelle parti dove non era possibile eseguire la saldatura con la resina epossidica, il fissaggio è stato fatto con una miscela di malte a base di calce, polvere di marmo, cemento bianco, ossidi coloranti e resine adesive in polvere.
Una volta indurita la resina o la malta, l’eventuale “colatura” è stata rimossa mediante una leggera abrasione con smerigliatrice munita di disco di carta abrasiva (grossa o fine, a seconda della necessità). Per la parte della torre campanaria in pietra marna con esfoliazioni superficiali, si è proceduto pazientemente con l’iniezione nelle crepe e “sotto pelle” di resine, utilizzando una grossa siringa; anche qui gli eccessi sono stati rimossi con leggera carteggiatura.
Anche la “chiave” di un arco della torre campanaria in pietra marna è stata saldata forando in profondità le parti e inserendo due barre in vetroresina, annegate nella resina epossidica; successivamente, dopo la ripulitura, è stata stuccata con una miscela appropriata di malte, dandole la sagoma originaria. Sulle parti di pietra marna sono state applicate successivamente più mani di impregnante consolidante a base di “silicato di etile” con proprietà consolidanti per la pietra degradata, iniettando il prodotto attraverso le crepe visibili e irrorando e strofinando a pennello tutte le altre parti a più passaggi “umido su umido”, in modo che potesse impregnarsi maggiormente. In questo modo siamo riusciti a “consolidare” una scorza di alcuni millimetri di pietra (per ottenere un risultato più profondo, sarebbe stato necessario poter immergere “il pezzo” nel prodotto consolidante, lasciarvelo per un pò di tempo e quindi farlo asciugare per alcuni mesi).
La ricostruzione del cornicione
Un intervento decisamente impegnativo è stata la ricostruzione del cornicione alla base della torre campanaria. Abbiamo prima di tutto ricavato la sagoma dai residui ancora visibili, quindi, con lo stampo in lamiera, abbiamo ricostruito un lato intero del cornicione.
Nel frattempo, dove doveva essere ricostruita la cornice, è stata realizzata un’armatura con perni in vetroresina di grosso diametro, inseriti in fori inclinati sulle parti in pietra ancora solide e saldati successivamente con la resina epossidica; i perni sono stati “collegati” tra loro da verghe più sottili di vetroresina, creando una specie di armatura a gabbia. Sono stati usati perni in vetroresina perché non si corrodono nel tempo, non subiscono cambi dimensionali con la naturale escursione termica estate/ inverno o giorno/notte e sono facilmente lavorabili (le sovrintendenze li consigliano al posto dei perni in acciaio). Dopo aver fissato gli stampi sui lati del campanile, uno alla volta, è stata colata la malta, composta da calce, polvere di marmo, cemento bianco e ossidi coloranti, il tutto additivato da una dose importante di resine in polvere, che avevano la funzione di migliorare l’adesività delle malte.
Una volta disarmato il pezzo, si è provveduto a carteggiare le imperfezioni, le creste e le bordature di malta, per dare una uniformità al tutto. Queste operazioni sono state ripetute per i quattro lati del campanile.
Sotto il tetto…
La cornice sottostante il tetto presentava dei blocchi in pietra con crepe, oltre a pezzi di notevoli dimensioni. Per le operazioni di fissaggio abbiamo osservato come originariamente avessero agganciato i pezzi in pietra agli angoli ovvero con il sistema delle zanche in ferro “saldate” con fusioni in piombo su fori precedentemente scavati con scalpellinatura. Bene, noi abbiamo copiato questa tecnica, forando prima con un trapano e poi agganciando le due parti con zanche in ferro sottile (del diametro di 4 millimetri). Una volta effettuata la saldatura con una colatura di resina epossidica nei fori, il tutto è stato lasciato a vista, perché la riparazione sarebbe stata poi nascosta dal tetto, ricostruito ex novo. Nelle parti che si stavano distaccando, gravemente ammalorate, abbiamo inserito perni in vetroresina saldati con resina; successivamente abbiamo rifinito le parti a vista con malte additivate.
A questo punto mancava solamente la ricostruzione delle fughe con malta appropriata e il trattamento protettivo finale. Per la miscela di malta per le fughe, abbiamo cercato di trovare la giusta combinazione di sabbia fine e grossa (in eguali proporzioni), calce e cemento bianco. L’obiettivo era fare assomigliare il più possibile il risultato alle stuccature originali.
Durante queste fasi è fondamentale non tornare a sporcare le superfici: bisogna lasciare seccare parzialmente la stuccatura e ripulirla a secco con spazzole dure sino alla rimozione degli eccessi. Dopo la spazzolatura, se necessario, basta ripassare con una spugna umida per la rimozione dell’eventuale velatura lasciata dalle malte.
Una volta che le superfici si sono asciugate, si è passati alla fase di protezione idrorepellente, effettuata con un impregnante silossanico in base solvente, irrorato con una pompa a bassa pressione; quindi si è proceduto alla uniformazione delle eventuali colature. Tali operazioni sono state effettuate anche sulle parti in marna, anche se preventivamente erano state impregnate con consolidanti.
Il fascino del tempo
Prima di chiudere, una precisazione: vista la mole e la tipologia dell’intervento, non è necessaria in questi casi una cura maniacale delle finiture, come quando ci si trova in un’abitazione privata… Un po’ di velatura della malta, un po’ di stuccatura residua, una crepa sfuggita e ancora visibile, una stuccatura mancante fanno sembrare il manufatto antico; deve rimanere un po’ del fascino dell’usura del tempo. Non possiamo – e non dobbiamo – pretendere di far diventare totalmente nuova una costruzione che ha centinaia di anni, così come non è giusto portare a nuovo un monumento che il tempo ha segnato. Certi interventi di pulitura su opere o monumenti antichi, in effetti, possono eliminare quella che viene comunemente definita “patina del tempo”, patina che, una volta persa, nessun intervento umano – e tantomeno nessun prodotto chimico – riesce a ricostruire.
Nell’approcciarsi a lavori di questo genere, la domanda a cui dobbiamo rispondere è: come possiamo eseguire l’intervento rispettando il più possibile il manufatto? Non possiamo certo pensare di eseguire interventi con le stesse tecniche dei nostri avi, ma, imparando da queste, possiamo cercare di coniugare il rispetto dell’antica arte con la modernità di tecniche e prodotti rispettosi dei materiali con i quali entriamo in contatto. Ogni intervento di pulitura e di trattamento protettivo lascia il suo segno e potrebbe diventare deleterio se non si tiene conto, eseguendolo, della tipologia dei materiali, delle condizioni in cui si trovano, delle località in cui sono situati (una cosa è che essi si trovino a Venezia, altra cosa è che essi siano a Cortina o Trieste), dei fattori di degrado ambientale, degli eventuali interventi invasivi eseguiti precedentemente con superficialità, non percependo sulla propria pelle quella sensazione di rispetto dei manufatti costruiti da chi forse ne sapeva più di noi.
Nessuno nasce maestro, mi diceva sempre mia madre, e oggi mi rendo conto sempre più di quanto sia importante osservare quello che, con pochi mezzi, sono riusciti a fare i nostri antenati, invece di partire dal punto di vista che ai nostri giorni e con le tecniche in nostro possesso possiamo fare tutto.
Solo il tempo ci dirà (o dirà a chi verrà dopo di noi) se i nostri interventi sono stati fatti bene, con cognizione di causa, o dettati solamente da tempi imposti dalla modernità attuale.