I problemi delle PMI.
Questo il tema di un convegno internazionale che si è tenuto recentemente in Cina.
Di recente sono stato invitato a parlare al 14esimo Congresso Internazionale delle Piccole e Medie Imprese che si è tenuto a Hangzhou: erano presenti professori, ricercatori e imprenditori di tutti e cinque i continenti. Il tema di quest’anno non poteva che riguardare il momento di diffi coltà che le PMI (piccole e medie imprese) stanno vivendo, la oramai famigerata “crisi”, i suoi perché e gli scenari possibili. Il tema principale trattato durante l’incontro, posto da economisti di fama mondiale, è riassumibile in questi termini:
“Sappiamo che c’è un legame forte tra PMI e produttività, e quindi tra PMI e crisi, ma la domanda principale è: c’è la crisi perché muoiono le piccole imprese oppure le piccole imprese muoiono perché c’è la crisi?”.
Al di là della mera retorica sulla relazione causa/effetto, la domanda vuole cercare di andare oltre e tentare di capire per quale motivo le imprese chiudono oppure non nascono neppure, o ancora cosa manca loro per andare avanti, anzi, meglio, crescere. In altre parole, ci si domanda perché nascono poche nuove imprese rispetto alle opportunità che, nonostante il periodo complesso, ci sono e andrebbero colte: risulta chiaro a tutti come le PMI stiano avendo un andamento altalenante: molte stanno sopravvivendo, poche godono di sana e robusta costituzione e alcune stanno morendo.
Difficoltà: reali o meno
Pare che il problema principale riguardi la mancanza di imprenditorialità, in altre parole “non si fa più impresa”: in questo caso siamo di fronte a un cane che si morde la coda, perché se non si fa impresa c’è la crisi, che a sua volta rende diffi cile fare impresa. Questo circolo vizioso è probabilmente dovuto anche all’apporto delle nuove generazioni, le quali hanno una cultura di impresa decisamente diversa dalle generazioni precedenti. Una piccola parentesi per ciò che riguarda realtà lontane dalla nostra: si tratta di contesti profondamente diversi, in cui prevale un atteggiamento di scelta tra l’impegnarsi in una grande impresa, con numeri che sono di dimensioni inconcepibili per noi, oppure la scelta è di creare una piccolissima impresa di nicchia, che sia superspecializzata. Torniamo alla nostra realtà e all’esperienza di questi momenti. A mio parere, in Italia, per quanto riguarda l’atteggiamento verso l’imprenditorialità, l’attitudine al rischio e alla passione di creare e condividere qualcosa, possiamo distinguere tre categorie di imprenditori che, negli ultimi decenni, hanno avuto un approccio decisamente differente alla “cultura d’impresa”. La generazione del dopo guerra aveva un concetto di base: si era nati per creare, esattamente per ri-creare, non solo per lavorare: i frutti del lavoro erano attesi a lungo termine e ciò che si costruiva doveva durare nel tempo attraverso le generazioni, senza preoccuparsi del livello di sacrifi cio richiesto. La visione non prevedeva scorciatoie, ma impegno e duro lavoro abbinato alla passione e al senso di avventura, fondamentale per un imprenditore. La generazione successiva invece, quella degli anni 80/90, tendenzialmente è andata all’università, nella quale più che a fare l’imprenditore si insegnava a fare il manager: più che l’attitudine al rischio si insegnava a gestire un’azienda, orientando sforzi e risultati e valutandone scelte e comportamenti nel breve termine. Il risultato è stato quello di creare cultura nelle imprese che già c’erano e magari erano gestite con volumi e modalità prevalentemente artigianali. Infi ne, pare che nelle generazioni attuali, quelle del nuovo millennio, il piacere di creare qualcosa, l’attitudine al rischio e il gusto per il sacrifi cio siano oramai passati di moda e pertanto, oltre a qualche rara e importante eccezione, manchi la voglia di fare impresa, oppure se ne abbia il timore. L’attuale ambiente economico e fi nanziario giustifi ca di gran lunga questo atteggiamento, ma… non è quando il gioco si fa duro che i duri cominciano a giocare?
Un mondo a due velocità
Forse è proprio questo forte immobilismo, all’interno di un mondo sempre più dinamico e veloce, che peggiora e acuisce la “crisi”, che forse – oltre a una crisi economica – diventa anche una crisi di valori. Ma se crisi trova la sua origine etimologica in un “necessario momento di cambiamento”, allora il recupero della cultura del fare impresa potrebbe essere la direzione giusta verso la quale andare. Se queste considerazioni valgono a livello internazionale, i numeri dicono che in Italia le cose non stanno proprio così (fonte Unioncamere): nel 2012 le imprese italiane hanno un saldo positivo di 18.911 unità. Si è cresciuto poco (+0,3%) e molte sono state le imprese artigianali che hanno chiuso. In sintesi la situazione italiana ci dice che vi sono più imprese che però creano meno valore, il numero delle aziende è aumentato, ma il Pil è diminuito.
Ma i cambiamenti stanno davvero avvenendo.
Giovani sotto i 35 anni, donne e immigrati sono stati il motore di una modifi ca, seppur lenta, che però a mio giudizio si percepisce. La crescita si vede soprattutto nelle attività legate al turismo, al commercio e ai servizi alle imprese e alle persone: ci stiamo trasformando da un paese con grandi imprese di produzione a un luogo di piccole imprese centrate sulle persone e non sui capitali. È importante pensare che in Italia ci sono 6.093.158 imprese (al 31.12.2012): un’azienda ogni 10 persone, un mondo brulicante di operosità e iniziative. Il problema però rimane – ed è – è legato alla creazione di valore, non solo al numero di attività. Dobbiamo ricordare che se fare impresa non ha come suo scopo (la sua “mission”) il “creare valore”, ma solo quello di soddisfare bisogni dei singoli individui, in breve tempo il valore non solo non si crea ma si distrugge.
Nessun uomo è un’isola
Fare impresa ha un fi ne sociale e l’imprenditore ha una responsabilità sociale molto forte. L’imprenditore è colui che crea opportunità e ricchezza per sé e per gli altri, e non può essere sottovalutata l’importanza che ha questa fi gura e il suo impatto nel tessuto sociale e nel territorio in cui opera. L’opportunità signifi ca futuro e sostenibilità; ricchezza signifi ca generare valore per reinvestirlo e ridistribuirlo; per sé signifi ca dare un senso ogni giorno a quello che si fa; per gli altri significa riconoscere che degli altri si ha bisogno e insieme si può crescere. Il “vero” imprenditore quindi deve sempre tenere presente il suo stretto legame con il territorio di appartenenza e con le famiglie dei suoi collaboratori, che spesso diventano quel capitalismo personale che rappresenta la vera e profonda ricchezza di ogni uomo o donna d’impresa. Una volta che viene riconosciuto questo collegamento tra impresa e società, il legame si fortifi ca e diventa una risorsa, che spesso non ha nemmeno la necessità di essere comunicata, essendo integrata totalmente nell’identità aziendale. Questo dovrebbe essere il tipo di cultura di impresa di cui abbiamo bisogno al giorno d’oggi e che dobbiamo trasmettere ai giovani che si affacciano al mondo dell’imprenditoria. Perché il futuro verrà scritto da loro. Ancora una volta, dunque, la strada da percorrere è quella di investire sulle giovani generazioni, insegnare e trasferire loro la passione per l’impresa, contribuire a creare qualcosa per loro, la loro famiglia e il loro territorio, magari affiancandoli a qualche “grande vecchio” testimone, che possa raccontare in maniera concreta i valori, l’esperienza e la vita degli imprenditori del passato, del presente, e, perché no, del futuro.