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Non per obbligo, ma per scelta

Famiglia e azienda non sono due entità indipendenti l’una dall’altra, non sono due monadi, due mondi separati e/o avversari, o per lo meno rivali nell’accaparrarsi le attenzioni, l’amore di chi costruisce sia una famiglia sia l’azienda.

Tanto è vero che quando si vuole descrivere un ambiente di lavoro sereno, in cui i rapporti tra proprietà, management, dipendenti

sono rapporti di vera collaborazione, caratterizzati dalla condivisione dei valori e della mission aziendale, si dice: siamo una “grande famiglia”.

Quindi dalla famiglia, da quella biologica, e dai rapporti al suo interno, si deve partire per costruire, all’esterno, una realtà, per esempio quella aziendale, che abbia radici profonde e sane e continui a fi orire. Nella famiglia biologica ci sono legami di sangue che defi niscono identità e appartenenza dei vari membri, secondo una linea verticale indiscutibile – nonni, genitori, fi gli, nipoti eccetera – che presuppone amore per le vite che si sono create, e, per lo meno, un debito di riconoscenza verso chi ha dato la vita. Ma, all’interno della famiglia, ci sono anche legami che, seppure di identica matrice, non necessariamente “devono” essere vissuti con amore e armonia, in quanto prescindono da qualsiasi debito, ossia da qualsiasi dovere che impegni. Per esempio, l’andare d’accordo tra fratelli non è mai un obbligo, ma è sempre una scelta, più o meno conscia. Dai tempi di Caino e Abele. Quindi, se in famiglia l’andare d’accordo diventa una scelta, e come tale viene vissuta, non è tanto la famiglia in sé che deve essere salvaguardata, quanto le relazioni al suo interno. Solo in questo modo, partendo da questo presupposto, si può esportare un modello di relazioni che consenta di costruire davvero. Chi fa impresa non dovrebbe creare mondi paralleli e incomunicabili, per lo meno in fatto di relazioni. Soprattutto quando ci si trova a dovere fare i conti con possibili successori, per esempio i fi gli, che, pur nella loro specifi cità, devono essere in empatia con il o i genitori, per dare continuità a quanto è stato costruito. Altrimenti tutto crolla. L’imprenditore di questa storia chiama il consulente e si racconta. Ha un’azienda, da trent’anni, creata per sé, ma anche per i fi gli. Ne ha due: un maschio e una femmina. Il fi glio è laureato in economia, ma non ha voluto entrare in azienda. Lavora in Brasile per un’organizzazione di volontariato. Anche la fi glia, laureata in sociologia, non è entrata in azienda e si occupa di ricerche di mercato, in altra zona d’Italia. Insomma sembra che i due fi gli abbiano preso, anche letteralmente, le distanze tra sé e l’azienda. In primo luogo, però, tra sé e la famiglia. L’imprenditore chiede al consulente di aiutarlo a valorizzare al meglio l’azienda, per poi consentirgli di venderla con profi tto per potere garantire con il ricavato una serena pensione a sé e alla moglie e un vitalizio per i fi gli. Un quadro apparentemente “normale” di libere scelte individuali. Ma, quando il racconto entra nei dettagli, emergono altri elementi, che dipingono un altro scenario, meno idillico. Innanzitutto i fratelli non solo vivono lontani, dalla famiglia e l’uno dall’altro, ma non si parlano praticamente da anni. Un silenzio ostile che affonda le sue radici nelle relazioni familiari risalenti alla loro adolescenza. Amati dai genitori, che, però, sono sempre apparsi sostanzialmente isolati l’uno dall’altro: il padre incentrato sul lavoro in azienda, la madre presa dalle proprie attività di benefi cienza. Ognuno ha sostanzialmente fatto la propria vita, quasi escludendo l’altro, senza coltivare punti di incontro e alimentando un risentimento serpeggiante, avvertito dai fi gli, che si sono, quasi automaticamente, schierati l’uno per la madre, l’altra per il padre. E, quindi, hanno smesso di parlarsi, in quanto “rivali”. In sostanza, una famiglia allo sbando, con relazioni inesistenti. Formalmente rispettosi dei ruoli, nella sostanza perfetti sconosciuti, persone sole. Il consulente non accetta passivamente questa solitudine e, nonostante la sfi ducia del padre, che è convinto di non potere modifi care questa situazione, avvia un processo di ricostruzione delle relazioni interpersonali. Si mette in contatto con il fi glio, che rivela di essere arrivato alla saturazione emotiva e professionale, perché anche il mondo del volontariato è attraversato da dinamiche di interessi personali che ne appannano i valori originari. Facendo leva su questa incrinatura, il consulente propone al fi glio di rivedere le propria posizione rispetto all’azienda familiare, con la quale, peraltro, dovrà prima o poi fare i conti, perché è un patrimonio che c’è e che potrebbe rappresentare un punto di riferimento se non per lui almeno per i suoi fi gli. D’altra parte, ha sempre l’alternativa del rifi uto, che, però, sarebbe uno sbaglio se fosse aprioristico. Il fi glio espone le sue remore. In primo luogo la convinzione di non essere un imprenditore. Ma il consulente sa che ci sono tratti caratteriali che prescindono dall’ereditarietà genetica biologica, che hanno radici più profonde, in una dimensione “culturale” che, all’occorrenza, si riproduce, quasi darwinianamente, e garantisce la sopravvivenza di tratti specifi ci che, se riconosciuti e accettati, evolvono positivamente. E lo mette di fronte a questa sua realtà: essere imprenditore non signifi ca solo inseguire una prospettiva economica, ma vuol dire anche, e soprattutto (ed è questa la convinzione del padre, che però non ha saputo comunicarla ai fi gli) creare un patrimonio di relazioni e di umanità, come il padre ha saputo fare e come lui, il fi glio, ha dimostrato di perseguire proprio con la sua “diversa” attività. Nel suo sangue c’è la scintilla dell’imprenditore. Riconoscerla e accettarla signifi ca conoscersi a fondo. Per conoscere se stessi, però, occorre conoscere le proprie origini, quindi farsi raccontare, dal padre, chi è, cosa ha desiderato, come e perché, e soprattutto, che cosa ha costruito e che cosa vuole lasciare veramente di sé ai propri fi gli. E qui subentra anche il rapporto con la sorella, altra isola solitaria, con la quale il fratello non vuole condividere percorsi di vita e professionali. Troppo diversi. Ma la diversità non può e non deve essere distruttiva. Tanto più che l’attività della sorella può essere utile all’azienda, può essere una risorsa, un patrimonio da mettere a frutto, senza necessariamente essere svolta dall’interno, imponendo l’uno all’altra una presenza per ora ingombrante. Però, la condizione imprescindibile è che padre, madre, fglio/fratello, fi glia/sorella si parlino, ai raccontino, cerchino di conoscersi, di accettarsi, di accettare il reciproco ruolo sociale, a prescindere dalle scelte private. E poi ognuno potrà scegliere se e come impegnarsi. Oggi, a distanza di cinque anni, il quadro è mutato completamente. Le scelte sono state operate. Il fi glio è entrato in azienda, ha seguito un percorso di formazione gestionale, insieme con il padre ha riorganizzato tutta la struttura e il processo di lavoro, raddoppiando in cinque anni fatturato e sede. Il padre è rimasto socio e siede nel consiglio di amministrazione, come la sorella, che però ha aperto uno studio professionale per conto proprio e collabora dall’esterno come consulente, sia dell’impresa familiare, sia della relativa associazione di categoria. Questo è il frutto di un patto stipulato tra genitori e fi gli, sottoscritto da tutti, con cui è stata defi nita, in vita, la successione patrimoniale, per cui si è evitata la distruzione dell’azienda. Sul piano personale, ognuno di loro ha una propria vita familiare privata. La famiglia d’origine si riunisce soprattutto per questioni riguardanti l’azienda, che è diventata la fonte del dialogo interpersonale. Con ciò ribaltando l’espressione comune. Non è più l’azienda a dovere la sua “umanità” alla famiglia, ma è la famiglia a “dovere” all’azienda un minimo accettabile di dialogo.
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