Igiene Alimentare

La Campilobatteriosi: storia di una malattia alimentare poco famosa

L’ottenimento di un elevato grado di qualità e sicurezza in una azienda del settore alimentare si raggiunge conoscendo, valutando e limitando i rischi e i pericoli legati all’attività. Tra questi, le malattie a trasmissione alimentare rappresentano un aspetto di notevole importanza.

Un prodotto alimentare viene definito sicuro quando i rischi associati sono accettabili e non un pericolo per la salute pubblica. Il rischio alimentare, infatti, è strettamente legato al pericolo biologico, cioè tutti quei contaminanti di natura biologica che possono rendere inadeguato al consumo umano un alimento.

Tra questi, i batteri rappresentano una grande fetta, soprattutto quelli nocivi per la salute umana. Nonostante gli alimenti siano naturalmente suscettibili alla presenza di batteri, la sicurezza alimentare si impone come obbiettivo primario quello di impedire la contaminazione e la proliferazione di batteri patogeni. La corretta applicazione delle procedure previste lungo l’intera filiera alimentare rappresenta un buon deterrente all’insorgere di complicazioni, ciò nonostante le malattie di origine alimentare esistono e spesso creano notevoli danni. Ne è un esempio la Campilobatteriosi, causata principalmente dall’ ingestione di alimenti contaminati da batteri appartenenti al genere Campylobacter.

CHE COS’E’?
Questa malattia veniva già descritta negli anni ’50, ma è principalmente negli anni ’70 che viene associata a sindromi diarroiche nell’uomo. E’ negli ultimi dieci anni, però, che la malattia ha registrato un forte incremento, tanto che sia il Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e promozione della Salute (Cnesps) a livello nazionale, che l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) a livello europeo, l’hanno decretata come un vero e proprio problema per la salute pubblica di impatto socio-economico considerevole. I dati a sostegno di questa panoramica non mancano: l’EFSA dichiara che nei Paesi Europei si registrano più di 190.000 casi ogni anno nell’uomo, ma stima che i casi reali, compresi quindi anche quelli non correttamente segnalati, si avvicinino ai 9 milioni l’anno, con un impatto complessivo sull’economia europea di circa 2,4 miliardi di euro. Volendo poi lasciare i confini europei, i dati non si arrestano. Negli Stati Uniti, infatti, secondo le stime del CDC (Centers for Disease Control and Prevention) la Campilobatteriosi colpisce più di 1,3 milioni di persone ogni anno. Con questi numeri quindi la Campilobatteriosi si aggiudica di diritto il “premio” di malattia gastrointestinale più diffusa al mondo superando, a livello di tasso di incidenza in alcuni Paesi, anche la più nota e frequentemente nominata Salmonellosi. La sintomatologia della campilobatteriosi nell’uomo è abbastanza diversificata. Solitamente prevede un periodo di incubazione variabile (da 1 a 7 giorni) e la maggior parte delle volte i sintomi sono simili a quelli di una tipica malattia gastrointestinale: diarrea spesso sanguinolenta, nausea, vomito, febbre, mal di testa e dolori addominali. In una percentuale notevolmente più bassa, però, l’insorgenza di questa malattia è associata a manifestazioni ben più gravi come meningiti ed endocarditi che, per categorie di pazienti più suscettibili come bambini ed anziani, possono rappresentare un pericolo decisamente più serio. La campilobatteriosi, inoltre, è più volte stata associata anche a reazioni croniche che vanno dall’artrite re attiva, a infiammazioni di reni e fegato fino alla Sindrome di Guillain-Barrè. Quest’ultima è una forma di neuropatia causata da una risposta autoimmune che determina una paralisi acuta con possibile compromissione anche delle funzioni respiratorie. Un quadro così complesso di possibili risvolti clinici e una mancanza di caratteristiche specifiche che faccia della campilobatteriosi una patologia facilmente individuabile e identificabile rispetto ad altre malattie gastrointestinali simili, fa si che la soglia di attenzione e di conoscenza di questo patogeno alimentare debba essere sempre elevata e mai sottovalutata.

DA COSA E’ DOVUTA?
Le specie batteriche appartenenti al genere Campylobacter coinvolte nella patogenesi umana sono numerose (circa 20) ma quelle più comuni sono Campylobacter jejuni, Campylobacter coli e Campylobacter lari, anche se è importante notare che è C. jejuni a provocare quasi il 90% dei casi. Sono batteri termo-tolleranti, in grado cioè di proliferare a temperature che oscillano tra i 37°C e i 42°C (in base alla specie) ma smettono di crescere al disotto dei 28°C e non sopravvivono alla cottura, così come alla disidratazione e in ambienti molto acidi. Questi batteri si trovano spessissimo nel tratto intestinale di diversi animali sia selvatici che domestici come, uccelli e pollame ma anche suini, ovini, bovini e in animali da compagnia (cani, gatti), rappresentando così il serbatoio naturale di Campylobacter. Essendo presente prevalentemente nel tratto intestinale animale, Campylobacter viene rilasciato nell’ambiente tramite le feci, contaminando ambiente ed acque. Ad esempio, negli allevamenti di pollame il contagio tra gli animali diventa molto facile e Campylobacter si diffonde facilmente da animale ad animale attraverso fonti di acqua comuni o per contatto con feci infette.

COME SI CONTRAE?
La contaminazione dell’uomo da parte di questo batterio può avvenire in maniera diretta e cioè per contatto con animali infetti, o in maniera indiretta attraverso il consumo di alimenti o bevande contaminate. La via diretta è meno frequente e, nel caso, limitata al personale a stretto contatto con animali infetti, che spesso se contaminati non presentano sintomi evidenti dell’infezione. La via di contagio più frequente, invece, è decisamente quella indiretta ed è per questo che la campilobatteriosi viene classificata come malattia alimentare. Gli alimenti che più risultano contaminati da Campylobacter sono quelli di origine animale ma non solo:

  • carni avicole (pollo, tacchino, anatra, oca);
  • carne bovina e suina (soprattutto le frattaglie);
  • latte vaccino e prodotti derivati dal latte;
  • prodotti ittici;
  • vegetali;
  • acqua.

Il processo di macellazione, ad esempio, può favorire la contaminazione delle carni al momento dell’eviscerazione, quando è più facile che i contenuti intestinali entrino in contatto con il resto delle carni. Il latte di per se, raramente, viene contaminato primariamente dal batterio ma è un rischio che può verificarsi se l’animale da cui è stato ottenuto è infetto. La pastorizzazione del latte, però, abbassa drasticamente l’eventuale rischio, anche nei prodotti caseari. In generale infatti il rischio maggiore risiede in quegli alimenti che sono già di natura a rischio e che, per giunta, vengono consumati crudi o poco cotti ma anche in alimenti freschi (come frutta o verdura) consumati crudi che possono essere contaminati da acqua infetta non trattata o non potabile o per contatto con altri alimenti. Un discorso a parte va fatto per le acque. Queste possono essere contaminate dalle feci rilasciate nell’ambiente dagli animali infetti e a loro volta contaminare: altri animali diffondendo così l’infezione sia negli allevamenti che in natura; direttamente gli alimenti (frutta, verdura, o altri generi come i prodotti ittici) durante le fasi di lavaggio; direttamente l’uomo per ingestione diretta.

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