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Non bisogna lasciar perdere

Questa è la storia di un fallimento, dignitosamente possibile, ma sventato per dignità

Un’azienda che si tramanda di padre in figli, per tre generazioni. Il nonno, il fondatore, ormai settantacinquenne quando prende il via la “saga”, affetto da demenza senile, si lancia in una serie di operazioni molto avventate, causando seri problemi finanziari. Uno dei figli, quarantenne all’epoca, decide di forzare la mano, vuoi per le condizioni del padre, vuoi per contrasti all’interno della famiglia d’origine.

Sposato, con figli minorenni, con il consenso della moglie, decide di prendere in mano le redini dell’impresa e si impegna pesantemente sul piano finanziario per liquidare i fratelli e “pensionare” il padre, al quale garantisce una vita molto dignitosa. L’azienda conosce un momento felice e l’attività si sviluppa bene, ma il destino è in agguato. Il titolare, nel giro di pochissimi mesi, è colpito da un male incurabile e muore, lasciando nel caos più completo moglie, figli, azienda. I figli sono minorenni, la moglie si è sempre dedicata esclusivamente alla famiglia e non è in grado di subentrare al marito alla guida dell’impresa. In azienda si scatena la guerra e in tanti si impegnano per sottrarla agli eredi, chi in modo corretto, chi in modo truffaldino. Il dipendente più scaltro avvia un’attività in proprio, acquisendo tutti i clienti più importanti. Praticamente l’azienda è stata svuotata, non c’è più. A questo punto, sarebbe stato più che lecito, da parte della famiglia del titolare, chiedere il fallimento dell’impresa, rifiutando l’eredità, tanto più che i figli erano minorenni.

In nome del padre

Ma, a questo punto, scatta la molla dell’orgoglio. La moglie non vuole che il nome del marito defunto venga minimamente offuscato, per cui decide di affrontare diversamente la situazione. Si accolla tutti i debiti e li paga, nell’arco di dieci anni. Salva il ricordo e l’immagine del marito. Ma la vita di tutti cambia. I figli devono adeguarsi e subire un drastico abbassamento del tenore cui erano abituati, quando erano “figli di imprenditore”. Sacrifici, rinunce, dovere inventarsi un’esistenza, ognuno per conto proprio. Ma a testa alta, secondo il credo familiare, senza la “vergogna” di vedere il nome del padre macchiato da alcunché. Sono trascorsi quarant’anni. Il figlio minore, proprio quest’anno, ha recuperato l’insegna dell’azienda paterna e ha deciso di riaprire l’attività, sanando così la profonda ferita di tutta la famiglia, prendendosi una rivincita sul passato e rispettando, nella logica di un personalissimo codice d’onore, l’etica di impresa. Ma a che prezzo? E perché?

La sconfitta è una maestra di vita

Perché nella nostra cultura, quella italiana e quella imprenditoriale, specie per quanto concerne le aziende familiari, l’idea del fallimento, dell’insuccesso è un’idea spaventosa. Nell’immaginario collettivo, se non si arriva primi o non si rimane a galla nella gara sempre più frenetica della competitività, si è marchiati a vita come perdenti. Fallire è un’onta, una macchia indelebile, che passa di padre in figlio, di generazione in generazione. E non si considera neppure che c’è una rigorosa differenza tra bancarotta fraudolenta e un fallimento dovuto a motivi esterni, a meccanismi imprenditoriali che per mille motivi non si è più in grado di governare, a umanissimi errori. Chi ha detto che l’errore è la prima forma di apprendimento? In astratto l’affermazione è condivisibile, in pratica l’errore viene nascosto, non viene elaborato, quindi rimane irrisolto. Invece, sostiene Franco Cesaro, bisognerebbe saper perdere, comprendere la sconfitta, ossia introitarla, rielaborarla, accettarla per quello che è, un evento possibile, farla diventare parte della nostra cultura, per poterla affrontare. In fondo, proprio sulle sconfitte si è costruita la storia dei popoli e degli uomini: momenti di grande difficoltà sono sempre stati alla base di ogni rinascita. Una volta toccato il fondo, si risale, per rinascere a una nuova vita si deve morire, come l’araba fenice che risorge sempre dalle proprie ceneri. Eppure ciò che vale per le società di capitale, che sopportano il fallimento dell’impresa, per poi ripartire, non vale per le famiglie, perché l’insuccesso viene vissuto come personale. Se c’è un forte sistema di valori condivisi, di affetto sincero, di legami stretti, si ha sempre una possibilità di riscatto, ci sarà sempre la forza di ricominciare. Ma queste sono le condizioni indispensabili. Altrimenti…

 

foto Franco Cesaro 2 outFranco Cesaro è titolare dello Studio Cesaro&Associati, un Laboratorio per la Formazione e lo Sviluppo della Cultura nelle Imprese. È specializzato nel sostegno delle persone che lavorano nelle aziende, soprattutto in quelle costituite da capitale famigliare, nel mondo del commercio e della distribuzione.

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