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Creare è un atto d’amore

Quando prendersi cura del presente significa “ritrovare” un futuro

Imprenditori si nasce o si diventa? È una domanda che spesso Franco Cesaro si è sentito rivolgere nella sua qualità di consulente, di professionista che dedica il suo tempo alla vita delle aziende e in particolare alla figura dell’imprenditore, soprattutto nel momento in cui si pone il grande, e a volte, grave, problema del cambio generazionale, che spesso ha connotati di grande conflittualità.

 

Chi sono gli imprenditori? Sono individui che generano vita e che generano idee, che si concretizzano nella famiglia e nell’impresa. Famiglia e impresa sono ambedue sue creature. Ma non sempre si sentono, a torto o a ragione, amate in egual misura. Non sono sorelle, tutt’al più sorellastre. Che, a loro volta, spesso non si amano. E che, in questo rapporto conflittuale, rischiano di mettersi reciprocamente in crisi, e avviarsi verso il fallimento. Perché?

Il 15 agosto di tanti anni orsono squilla il telefono del consulente, alle tre del pomeriggio: Ferragosto pieno, calura al massimo. È un anziano imprenditore, ha creato un’azienda, che opera nel settore arredo/casa, partendo praticamente da zero, forte soltanto della sua grande tenacia e dedizione, pur avendo solo la quarta elementare. E, da piccola azienda artigianale, si è conquistata una nicchia di mercato importante a livello internazionale.

Nella notte di Ferragosto ha avuto un’idea. Non ha potuto resistere. Il mattino presto si è recato in azienda – in una zona d’Italia in cui d’agosto, e quell’agosto in particolare, la temperatura raggiunge i 39°C, accompagnati dal 99% di umidità. Un caldo e un’afa insopportabili, tanto più che in azienda non c’è aria condizionata. Ma lui, tetragono, è in laboratorio a creare il suo prodotto. Avrebbe voluto condividere questa sua novità con qualcuno dei suoi cinque figli. Ha telefonato a tutti quanti, ma nessuno ha risposto. Tutti sono già in ferie! E per lui questo è incomprensibile.

Come, probabilmente, è incomprensibile per i suoi figli questo esclusivo attaccamento all’azienda. Figli che non sono riusciti a maturare lo stesso amore del loro padre per questa creatura con cui devono tuttavia fare i conti. Anche tra loro i rapporti sono andati via via deteriorandosi. Uno di loro, tuttavia, ora la gestisce, un paio d’altri vi lavorano come impiegati, altri due hanno fatto scelte di vita differenti, pur con un grande dolore, perché i conflitti che hanno generato tali scelte sono stati pesanti.

Forse il padre-imprenditore non ha saputo dosare bene il suo sentimento verso tutte le sue creature. E oggi sente il bisogno di parlare con qualcuno, che faccia da trait-d’union tra queste due parti essenziali della sua vita.

«L’ho chiamata – dice al consulente – perché non mi dimentico mai di avere frequentato solo fino alla quarta elementare. Ho bisogno di persone come lei, che mi aiutino ad andare avanti. Lei è un consulente e sa parlare, io sono imprenditore e creo, ma non sono capace di parlare. Lei può esprimere le mie idee. Ho bisogno di lei perché mi dia voce presso i miei figli. Se parlo io non mi capiscono, non mi ascoltano; se parla lei con loro, se espone lei le mie idee, la ascolteranno e riusciranno a capire».

Ma non è una questione di titoli di studio. I figli, infatti, non si sono laureati, tutti hanno avuto nell’impresa la loro scuola, hanno imparato in azienda, in cui sono entrati a lavorare sin da piccoli. E in impresa sono cresciuti, hanno intessuto relazioni personali, sia a livello nazionale che a livello internazionale. Ma non sono mai riusciti a entrare in relazione vera e profonda con il padre, che ha sempre avuto una grande difficoltà a comunicare con loro. Non ha saputo colmare il gap generazionale, situazione molto frequente in chi, come l’anziano imprenditore, è stato – ed è ancora – capace di rischiare, di inventare, di produrre con creatività, ma non ha saputo – e non sa – stabilire relazioni né con il sistema/famiglia, né con il sistema/ mercato, che negli anni è mutato.

E oggi, si ritrova un’azienda invecchiata, a cui ha continuato a fare da baby sitter e in cui sono entrati i figli, che non hanno osato opporre le proprie competenze acquisite sul campo e si trovano a dover fare da badanti a una struttura che non sentono loro.

E poi, probabilmente, non si sentono imprenditori, perché uno è il creatore e forse non sentono in loro la scintilla della creatività paterna. Il padre è nato imprenditore.

Ma, dice il consulente, se è vero che imprenditore si nasce, è altrettanto vero che imprenditore si diventa pure. E lo si diventa quando, con l’esperienza diretta, si coglie la necessità di cambiare quanto sta invecchiando, quando si avverte la necessità di innovazione. C’è chi crea, ma c’è anche chi raccoglie quanto seminato e rivitalizza quanto creato.

L’importante è far cogliere la valenza delle due posizioni, senza recriminazioni né desideri di rivalsa.

Ecco quindi che baby sitter e badanti possono recuperare l’aspetto del loro ruolo che le accomuna: entrambe lavorano per curare, son due professioni di aiuto, di sostegno e attenzione, di competenze multiple e disponibilità totale, pazienza e, in definitiva, amore.

Raggiunta questa consapevolezza, il dialogo si può avviare e finalmente si può comunicare. E diventa ancora più profondo e costruttivo se, nel frattempo, si sono sperimentate vie nuove e ci si è riconosciuti imprenditori. Dei figli, infatti, chi è rimasto in azienda ha colto il senso del proprio ruolo, gli altri due si sono fatti una posizione, creando aziende per conto loro, che, una volta consolidate, sono state inglobate nella holding di famiglia che nel frattempo si è costituita. Quindi l’azienda paterna è sopravvissuta a se stessa perché i figli hanno avuto la possibilità di creare per conto proprio e hanno capito la necessità del padre di creare come atto d’amore, che sopravviverà al proprio creatore.

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