Il dolore, naturale e profondamente sentito, di un figlio-imprenditore al funerale del padre-imprenditore viene acuito dallo sgomento di constatare che quell’uomo che gli ha dato la vita, che ha creato l’impresa, era stato in realtà per lui, figlio, uno sconosciuto o quasi.
«Avverto solo ora di non avere praticamente conosciuto mai nulla di mio padre – confida al consulente che partecipa alle esequie – e che lui non mi ha mai conosciuto a fondo.
Lui era là, nella sua impresa, a gestire la quotidianità, a risolvere i problemi, a “santificare” il lavoro con il sacrificio di sé; io, a godermi la vita e solo ora capisco di avere goduto dei frutti del lavoro di mio padre. Non ci siamo mai parlati veramente, e ora che non c’è più mi rendo conto di quante cose avremmo potuto dirci e non ci siamo mai dette. Vivrò sempre con il rammarico di non avergli mai detto grazie per quello che mi ha dato, e non solo in termini materiali, ma, soprattutto, in termini di esperienza, di valori, di etica. L’ho imparato dalle testimonianze dei collaboratori, dei clienti, dei fornitori, che mi hanno parlato di lui, riconoscendogli il valore aggiunto dell’umanità. Era un uomo che dava valore alle piccolissime cose, che sapeva rapportarsi con il più umile dei collaboratori e con il grande manager, riconoscendo a tutti il merito di quello che facevano, che sapevano dare, donare, all’azienda. Sosteneva che non bisogna mai dare niente per scontato, che alla base delle scelte di ciascuno c’è sempre una motivazione, che l’agire è un dono di sé. Sapeva riconoscere il valore delle scelte. Probabilmente provava gratitudine, quella gratitudine che io non ho saputo riconoscere a lui».
Parole sofferte, espresse, con grande dolore e umiltà, con trovata gratitudine, di fronte ai parenti, ai conoscenti, ai collaboratori riuniti intorno alla bara del padre. Parole che non aveva mai saputo o potuto dire prima, per non consapevolezza. Ora scaturivano spontanee, acuendo la sofferenza, ma, probabilmente, preparando la catarsi, la possibilità di consolazione. Ma quanto tempo perso!
Non solo i figli possono essere ingrati, anzi non-grati, figli che non riconoscono ai genitori di avere creato per loro l’azienda, che non sanno esprimere la gratitudine per l’opportunità loro donata, preferendo pensare che alla base ci sia una sorta di gratificazione personale. “L’hai fatto per noi, ma l’hai fatto soprattutto per te”.
Anche molti padri-imprenditori non concepiscono di potere dire grazie ai figli che sono entrati in azienda per avere scelto di restare, consentendo di dare un senso a quanto realizzato.
Dire grazie è molto difficile. È difficile dirlo ai figli, così come è difficile ringraziare i collaboratori per gli sforzi, per l’impegno profuso nel loro lavoro, preferendo considerare che il lavoro prestato sia solo frutto di relazioni contrattuali, quindi spersonalizzate. L’incapacità di gestire la gratitudine, il pudore di mostrarsi “deboli”, il timore di creare differenze, o di dare l’impressione di crearne, porta a volte a normare le relazioni, soffocando qualsiasi spontaneità.
In molti c’è la convinzione che si debba finalizzare ogni azione a un ritorno pressoché immediato.
Invece, per sua natura, l’impresa guarda lontano. Non si può né si deve focalizzare sul breve termine, deve svilupparsi, crescere, senza aspettarsi un ritorno immediato.
Non si può fare un feticcio solo dell’economia di mercato, che si basa sul valore di scambio, sul valore commerciale.
Anche nella nostra civiltà dei consumi, esiste l’economia del dono, che anzi, secondo il sociologo canadese Jacques T. Godbout, sarebbe il motore su cui può crescere l’altra economia, di stato e di mercato. Godbout afferma che oggi nulla può funzionare e crescere se non nutrito dal dono, a iniziare dalla stessa vita umana, il cui inizio è proprio un atto di dono all’interno di un nucleo familiare. E, probabilmente anche la stessa amministrazione pubblica o le aziende non potrebbero restare sul mercato se il loro “motore umano”, i salariati, non dessero sul lavoro, ossia non donassero, più del corrispettivo del proprio salario.
Il riconoscere il dono come meccanismo che prevede il dare, il ricevere e l’accettare (quindi ringraziare), il ricambiare; esprimere gratitudine, per questa reciprocità, rafforza le relazioni sociali, spinge a investire, in termini materiali e immateriali, nella vita privata come nell’economia: qualcuno fa qualcosa per te e tu, riconoscendolo, dai in risposta qualcos’altro.
Sarebbe meglio averne consapevolezza sin dall’inizio. Ma è positivo anche riconoscere il valore della gratitudine di fronte a una perdita. Dire grazie a posteriori, accettando il dono e agendo, da quel momento in poi, per ricambiarlo. E migliorare la società.
Una citazione della Bibbia recita:
“A chiunque ha sarà dato, e sarà nell’abbondanza. A chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”.
Come è possibile che la Bibbia dica che chi ha già avuto tanto avrà ancora di più, mentre chi ha avuto poco o niente verrà privato anche di quel poco o niente? Non è giusto. Ma non è una questione di giustizia. È una questione di gratitudine. Infatti, inserendo la parola gratitudine, le due frasi bibliche assumono un altro significato e si caricano di un valore altissimo: “A chiunque ha gratitudine sarà dato, e sarà nell’abbondanza. A chi non ha gratitudine, sarà tolto anche quello che ha”. Spesso non siamo abbastanza grati dei doni che abbiamo ricevuto – vita, amore, famiglia, salute, lavoro, eccetera-. Li diamo per scontati. Almeno fino a quando non incominciamo a perderli. Allora restituiamo al dono il suo ruolo, il suo valore e ci rammarichiamo per non averlo apprezzato quando, immeritatamente, ci apparteneva.
E non abbiamo mai pensato di dire grazie, – grazie per avermi messo al mondo, grazie per la salute… -, tanto lo consideravamo “dovuto”. E considereremmo una “grazia” il poterne disporre ancora.