Successo, valore, baricentro, opportunità e… rovina delle organizzazioni aziendali: tutto deve essere coniugato al femminile
L’impresa, l’azienda è…. maschio. Infatti, ancora oggi, il ruolo femminile nelle imprese, soprattutto in Italia è poco valorizzato. O, per lo meno, la valorizzazione delle donne non va di pari passo con quanto sta succedendo nella società: gli uomini leggono meno, vanno meno a teatro e al cinema, rendono meno a scuola in termini di voti e si laureano meno delle donne.
Tuttavia, a livello professionale, troviamo una maggioranza di donne in quelle attività che vengono considerate “di cura”, come l’insegnamento nelle scuole di grado inferiore, dalle materne alle superiori. Questo è un evidente stereotipo di genere. Se, infatti, si considerano le Università, a fronte di una sostanziale parità tra donne e uomini tra i ricercatori, tra i docenti solo il 35% è donna e i rettori donna sono solo 5 su 78.
La figura della donna prevale nel settore dei servizi e questo lascia sperare che il futuro sarà donna. Perché la donna è abituata, dal suo ruolo in famiglia, a lavorare e ragionare contemporaneamente su più fronti, sa governare relazioni conflittuali, sa mediare per tenere insieme le diversità, così come fanno le madri con i figli, con i vicini di casa, con i parenti.
L’uomo, per la sua forma mentis, per il suo stile cognitivo, ha un approccio diverso, non opera su più fronti contemporaneamente, è sempre orientato a dare una risposta per volta e, preferibilmente, alla domanda che si pone continuamente di fronte a qualsiasi situazione: a cosa serve?
Per la donna il discorso è diverso, in quanto la relazione non è per forza funzionale al risultato. La donna sa gestire situazioni complesse, stabilisce relazioni da cui dipende tutto il resto. È proprio da questa sua attitudine ancestrale che deriva il termine “economia”, parola di origine greca, che, letteralmente, significa “amministrazione della casa”, ossia gestione della complessità (la donna in casa è mamma, colf, cuoca, badante, cura l’amministrazione eccetera).
Sono tutte qualità che un imprenditore vorrebbe trovare nei suoi collaboratori: persone che non hanno paura di affrontare diverse problematiche, sempre disponibili, in grado di sobbarcarsi fatiche dalle sei del mattino a mezzanotte.
Nelle imprese familiari ci sono, in genere, due o tre tipologie di donne.
Donne ombra
Ci sono quelle che non si vedono mai in azienda, ufficialmente non rivestono alcun ruolo, ma spesso, per convenienze fiscali, detengono le quote di maggioranza, hanno la firma in banca, per cui hanno un ruolo giuridico importante. Sono donne ombra, governano in silenzio, esercitando una vera forma di potere, influenzano in maniera determinante i padri-padroni che in azienda comandano e a casa obbediscono. In azienda tutti sono consapevoli. Eppure, nel cambio generazionale, pur ereditando sia i maschi sia le femmine, è per lo più scontato che il potere vada agli uomini, quando, magari, le caratteristiche più adatte le avrebbero le donne. Ma prevale la cultura maschilista, coltivata, peraltro, dalle stesse donne.
C’è, infatti, la donna che ha convinto il marito a dare, sia al figlio che alla figlia, lo stesso stipendio di amministratore delegato, obbligando però la figlia a badare alla loro vecchiaia: al figlio, in pratica, l’impresa, alla figlia il compito di accudire i genitori. Questo è il tipo di donna che decide tutto della famiglia e dell’impresa, e, quindi, anche la successione. È il tipo di donna che generalmente cerca di tenere unito il patrimonio e la famiglia, vigilando su tutto e su tutti, quindi non cedendo quote azionarie ai figli, che lavorano in azienda, ma secondo precisi schemi familiari. In più del 50% di aziende familiari vige ancora questo tipo di cultura, che va bene se tutto procede per il meglio, ma che costituisce un blocco a crescita e sviluppo se si verifica una crisi di qualsiasi genere.
Piccole tigri
Ci sono donne che avvertono come imperativo morale il dovere di mantenere vivi i valori di fondo della famiglia e quindi li ripetono nell’impresa, nel momento in cui decidono di assumersi l’onere di dirigerla. Muore un imprenditore, ricorda il consulente, e lascia due figlie, cui spetta in eredità l’azienda. Una figlia è minuta e, apparentemente, fragile. L’altra non è interessata a continuare l’attività paterna.
La figlia fragile, per senso di responsabilità, affronta il ruolo che le è letteralmente piovuto addosso. Entra in Consiglio di Amministrazione, si siede nella poltrona “del capo”, troppo grande per lei, che sembra perdersi nell’abbraccio avvolgente. I collaboratori pensano di potere gestire la “piccina”, di mantenere, pertanto, il controllo manageriale e il diretto governo dell’azienda. In fondo il nuovo capo è una donna giovanissima, appena laureata, inesperta. Perciò pensano di avere gioco facile nel sottrarle le deleghe. Me lei prende la parola, e quello che dice disorienta tutti. “Buongiorno a tutti. Sono giovane, non so nulla dell’azienda, ma devo assumermene la responsabilità. È l’azienda della mia famiglia, è l’eredità, materiale e morale, di mio padre, per cui penso che voi sarete i miei collaboratore, che mi aiuterete ad assolvere al meglio questo impegno per me doloroso ma doveroso. Mi aiuterete a mantenere gli impegni assunti nei confronti dei clienti, delle persone che lavorano con e per noi. Questo è il valore profondo che mi ha trasmesso mio padre”. Di fronte a una simile grinta, a una tale coerenza…. i lupi sono diventati agnellini.
Le iperattive
Un terzo tipo di donna è la presenzialista, che vuole avere tutto sotto controllo, a tutela e a difesa della famiglia. Spesso, però, costituiscono un grosso problema, perché sono accentratrici. Si dicono che lo fanno per tutelare gli altri componenti della famiglia, in realtà vanno alla ricerca della parità con gli uomini, per cui fanno a gomitate per imporsi. Sbagliano perché si mascolinizzano. Occorre che – e questo è il ruolo del consulente – ristabiliscano la propria dignità di genere. Accettino il fatto di essere donne, gestiscano la complessità come sanno fare, essendo, magari, madri e dirigenti d’azienda, ma non per dovere dimostrare qualcosa a qualcuno – padri, madri, fratelli che siano – bensì perché l’hanno scelto. Se hanno l’attitudine a fare l’imprenditore, saranno ottimi imprenditori e sapranno garantire pace e giustizia nella gestione del patrimonio.