Elevate concentrazioni di istamina negli alimenti possono dare luogo ad effetti avversi nell’uomo. Capiamo di cosa si tratta, come si produce e soprattutto quali accortezze avere per evitarla
Nell’Unione Europea, l’intossicazione da istamina per ingestione di alimenti contaminati è una delle malattie più comuni causate, nella maggior parte dei casi, dai prodotti della pesca. Infatti ogni anno si verificano numerosi focolai, anche se il numero effettivo di casi, come afferma anche la stessa EFSA (European Food Safety Authority), spesso rischia di essere di molto sottostimato.
I sintomi dell’intossicazione sono diversi in base al distretto coinvolto e di solito compaiono un’ora dopo il pasto e possono comprendere, per esempio, sintomi cutanei (rush cutanei, sensazione di calore, ponfi e pruriti); sintomi gastrointestinali (diarrea, dolori addominali, nausea, vomito, gonfiore e bruciore della cavità orali) e sintomi neurologici (mal di testa, palpitazioni, formicolio, debolezza). Sono stati evidenziati anche casi più gravi con la comparsa di broncospasmi, difficoltà respiratorie e disturbi cardiaci ma in soggetti predisposti o particolarmente sensibili. In generale i sintomi permangono per tempi molto brevi (da poche ore a qualche giorno) e si risolvono in maniera autonoma.
L’istamina è un composto azotato che appartiene alla famiglia delle ammine biogene e ha un importante ruolo nel sistema immunitario dell’uomo. Nell’organismo umano è prodotta nei tempi e nella quantità necessarie, ma assumendone altra con l’ingestione di prodotti alimentari “contaminati” si può ottenere un sovradosaggio con conseguenze dannose. La malattia che compare nell’uomo in seguito all’intossicazione da istamina per il consumo di prodotti contaminati prende il nome di Sindrome Sgombroide. Nei prodotti ittici appena pescati l’istamina non è presente ma si forma nelle carni per decarbossilazione dell’aminoacido istidina mediante una reazione catalizzata dall’enzima istidin-decarbossilasi prodotto da alcune specie batteriche. Una proliferazione batterica elevata in tessuti ricchi di istidina, quindi, dà luogo alla produzione dell’istamina come metabolita tossico e spesso rappresenta le prime fasi del deterioramento dell’alimento senza però dare luogo ai tipici segni organolettici più visibili (alterazioni di aspetto, odore, sapore). Una contaminazione di questo tipo, che cioè non si manifesta palesemente con i segni di una chiara e inequivocabile non commestibilità, rende ancora più subdola questo tipo di intossicazione. Più coinvolti sono i pesci con carni ricche della forma libera dell’amminoacido istidina, come i pesci appartenenti alla famiglia Scombridae, tra cui specie pelagiche migratorie, come sgombro, tonno e tonno a pinne gialle, anche se il contenuto di istidina libera nei tessuti varia ampiamente tra le diverse specie ittiche. Essendo un composto organico che si forma a partire dagli amminoacidi, l’istamina può ritrovarsi normalmente in piccole quantità anche in numerosi alimenti, diversi dal pesce, tra cui prodotti lattiero-caseari, carnei, vegetali fermentati e prodotti a base di soia, bevande alcoliche come vino e birra. Il pericolo quindi è esclusivamente legato alla quantità di istamina prodotta e, indirettamente, al livello di contaminazione e proliferazione batterica dell’alimento. La produzione di istamina è fortemente legata alle Enterobacteriaceae (spesso isolate da ambienti marini) ma anche ad altri generi, come Vibrio, Clostridium, e Lactobacillus. Genericamente sono comunque batteri mesofili e che per questo proliferano bene a temperature tra i 25°C e i 35°C. Il mantenimento di temperature inferiori (al di sotto dei 5°C) perciò si rivela essenziale per rallentare il processo moltiplicativo e metabolico di tali batteri negli alimenti. L’abuso termico su prodotti sensibili, invece, che al contrario facilita l’attività batterica, favorisce anche la produzione di istamina, soprattutto se ad essere colonizzato è un substrato che facilita la formazione del composto tossico. Per quanto riguarda i prodotti della pesca, questi presentano naturalmente ceppi batterici sia nelle branchie sia nell’intestino senza che creino patologie o danni all’animale. Infatti, finchè il pesce è vivo, i sistemi di difesa non permettono a questi batteri una proliferazione inadeguata. L’istamina non è quindi presente nel pesce vivo, ma è prodotta dopo la sua morte, quando i meccanismi di difesa non inibiscono più la crescita batterica. Ogni fase della filiera alimentare, soprattutto per i prodotti più suscettibili come quelli ittici, deve avvenire evitando tutti i possibili comportamenti più rischiosi, per esempio l’interruzione della catena del freddo o la persistenza di condizioni igieniche-sanitarie carenti nelle fasi di lavorazione del pesce. D’altronde se l’istidina (amminoacido) è convertita in istamina (composto tossico) come risultato dell’attività di batteri che producono l’enzima istidina-decarbossilasi durante la loro crescita, la chiave per ottenere un prodotto sicuro, da questo punto di vista, è mettere in pratica e garantire tutte quelle condizioni di conservazione e lavorazione che impediscono la proliferazione batterica. Questo eviterà, nella maggior parte dei casi, il rischio di intossicazione da istamina. La prevenzione si attua, per esempio, raffreddando immediatamente il pescato dopo la cattura, oppure riducendo la carica batterica con operazioni quali l’eviscerazione e l’asportazione delle branchie nel più breve tempo possibile dalla cattura, evitando qualsiasi tipo di interruzione della catena del freddo e, soprattutto, mantenendo sempre condizioni igieniche conformi. Inoltre bisogna ricordare, nelle fasi di stoccaggio anche domestico, che il pesce è un alimento rapidamente deperibile e con il proseguire dei giorni, anche alla temperatura di refrigerazione, il deterioramento avanza inevitabilmente con possibile produzione di istamina. Bisogna inoltre precisare che, se la cottura è in grado di inattivare i batteri produttori di istamina, non lo è con l’istamina presente in quanto è termostabile e una volta prodotta persiste nell’alimento. La FDA (Food and Drug Administration) ha spesso ribadito l’importanza di raffreddare il pesce appena pescato vicino al punto di congelamento e per i pesci di dimensioni maggiori ribadisce l’importanza dell’eviscerazione immediata e indica le tempistiche consigliate. In ogni caso una volta ottenuto il raffreddamento iniziale è essenziale che questo venga mantenuto in tutte le fasi successive, dalla pesca alla cucina, senza interrompere mai la catena del freddo. Inoltre si ricorda di porre attenzione estrema alle ricontaminazioni dopo la cottura, il rischio di contaminazioni crociate in cucina anche dopo i trattamenti termici, infatti, è sempre ben presente. A livello Legislativo, sempre nell’ottica di garantire un elevato livello di sicurezza alimentare e di sanità pubblica, il Pacchetto Igiene tratta la problematica dell’istamina anche dal punto di vista dei Controlli Ufficiali. Il Reg. CE n. 854/2004, che stabilisce norme specifiche per l’organizzazione dei controlli ufficiali sui prodotti di origine animale destinati al consumo umano, specifica, nella sezione dedicate ai Controlli sui Prodotti della pesca (All.III – Capo II), come debbano essere presi in considerazione in fase di controllo gli Indicatori di freschezza e l’Istamina, rimandando inoltre al Reg. CE 2073/2005 (e agli aggiornamenti Reg. CE 1441/2007 e REG. ue 1019/2013) inerente ai limiti microbiologici ammessi negli alimenti, vista la strettissima correlazione tra contaminazione microbica e quantità di istamina e ai livelli di istamina stessa. Facendo riferimento all’Istamina, come composto tossico di interesse per la salute umana, riferendosi sia ai prodotti della pesca intesi come prodotti freschi sia come prodotti che hanno subito processi di maturazione in salamoia. Il livello di istamina presente negli alimenti, perciò, rappresenta un buon indicatore di qualità sia organolettica che igienico-sanitaria, d’altronde come è normale che sia, prodotti ittici freschi, conservati e lavorati correttamente presentano sempre bassi livelli di istamina. Il Codex Alimentarius ha affrontato questa problematica proponendo come limiti due valori diversi: la soglia di 100 mg/kg è indicata come parametro di qualità del prodotto, mentre la soglia di 200 mg/kg è la soglia di sicurezza per la sanità pubblica da non superare. La FDA (Food and Drug Administration) stessa ha fornito poi nel tempo delle Linee Guida per focalizzare l’attenzione sui parametri migliori da seguire, come tempi e temperature consigliare per la lavorazione, per garantire il mantenimento delle condizioni igienico sanitarie più consone non solo per i prodotti ittici freschi, ma anche per le conserve di pesce e i prodotti derivati.