Tecnologia

Industria 4.0. Quale futuro?

La quarta rivoluzione industriale suscita attese e timori, non solo in Italia. Ma quale sia la percezione delle aziende italiane di come e perché attuarla emerge da un’indagine di Federmeccanica

“Industria 4.0”, “Manifattura Digitale”, “Fabbrica Intelligente”: sono i mantra che da qualche tempo a questa parte attraversano il mondo della produzione manifatturiera, a livello mondiale. I dibattiti sono ovunque pressanti.

 

Come è noto, tale “rivoluzione” tecnologica si manifesta in molteplici forme ma ha nella possibilità di connettere gli oggetti tra loro (IoT), nella raccolta di enormi masse di dati in tempo reale (Big Data), nei processi di estrazione di informazione anche automatica di tali dati (data analytics), le principali premesse tecnologiche.

Internet delle cose, stampa 3D, robot, droni: termini ormai consueti che dovrebbero aiutare a ridisegnare il futuro industriale, nel segno di una competitività esasperata, che pare essere l’unica carta da giocare per lo sviluppo dei Paesi.

Siamo alle porte della Quarta Rivoluzione Industriale, i cui effetti dovrebbero essere più eclatanti di quelli prodotti dalle precedenti rivoluzioni, perché sconvolgeranno alla radice il panorama produttivo. Chi resta indietro è perduto. Industria 4.0, con tutto ciò che le è annesso e connesso, ha ormai sostituito il concetto di globalizzazione, che solo qualche decennio fa veniva presentata come l’unica possibile salvezza delle economie avanzate e come foriera di grandi progressi per i paesi del terzo mondo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Forse proprio per questo, Industria 4.0 affascina ma intimorisce. Non ci si riesce a prefigurare lo scenario che si sta preparando. Si avverte il rischio di un salto nel buio senza la sicurezza di un approdo stabile e fecondo.

Ci si chiede, per esempio, quanti posti di lavoro andranno persi in questa trasformazione. E non consolano le obiezioni di chi ricorda come le precedenti rivoluzioni abbiano aperto nuove possibilità, convertendo i posti di lavoro persi in altri più professionalizzanti, lasciando sul terreno solo poche vittime. Oggi il discorso coinvolge non solo le attività ripetitive e una volta definite alienanti, ma si estende a tutti i livelli, interessando anche categorie di professionisti finora ritenute al sicuro.

Germania e Stati Uniti sono le nazioni pioniere nella spinta a percorrere fino in fondo questo cammino, con un’alleanza stretta tra governi, aziende, università. Però, è di queste ore l’annuncio di Volkswagen del taglio di 30.000 posti di lavoro entro il 2020, sia come conseguenza dello scandalo Dieselgate, ma soprattutto, come ha specificato Matthias Müller, amministratore delegato del gruppo, perché “il brand Volkswagen ha bisogno di un vero e proprio scossone e questo programma di riforma è il più grande della storia della Volkswagen, e renderà l’azienda più efficiente, produttiva e competitiva e permetterà di accelerare su elettromobilità, digitalizzazione e connettività”. E lo ha chiamato “Patto per il futuro”. Quale?

Per non parlare di produttività. Da sempre le rivoluzioni industriali sono state accompagnate da un aumento di produttività. Quando furono introdotti i telai elettrici ovviamente ci fu un’impennata di produttività.

Ma oggi, in epoca di digitalizzazione? Secondo un’indagine dell’Istat, l’Italia è il fanalino di coda della UE. La media della produttività italiana negli ultimi vent’anni è stata pari a 0,3 annuo, con un picco di 1,1 nel periodo 2009/2013. Tuttavia anche negli altri paesi, nell’ultimo decennio la produttività è cresciuta del 50% in meno che nel decennio precedente. Rallentamento precedente alla crisi finanziaria del 2007, la madre di tutte le crisi. Anche negli Stati Uniti, la patria dell’interconnessione, non c’è stato incremento di produttività rispetto ad altri periodi, come sottolinea in vari interventi Luca Beltrametti, direttore del dipartimento di Economia dell’Università di Genova.

Il fatto, probabilmente, è che non si sa ancora bene dove si andrà a parare e come. Pare che ci si debba predisporre al nuovo, ma per che cosa e con quali risultati effettivi (soprattutto in termini di “cui prodest?” l’incremento di produttività, se saranno persi senza compensazione posti di lavoro che sono il necessario carburante della macchina dei consumi).

C’è un senso di smarrimento generale. Tuttavia anche l’Italia sta facendo la sua parte. Il Governo ha recentemente varato un piano di incentivi – denominato appunto “Industry 4.0” – per favorire la ricerca e la trasformazione in senso digitale dell’industria italiana, con la creazione di task force che vedano uniti produzione e mondo accademico per lo sviluppo di nuove tecnologie.

L’indagine

Ma in Italia, com’è percepita questa novità? Ce lo spiega un’indagine di Federmeccanica “Costruiamo insieme il futuro”, in merito proprio alla diffusione di “Industry 4.0” tra le imprese metalmeccaniche italiane, al fine di individuare il loro posizionamento rispetto a tale fenomeno.

La ricerca è stata presentata il 21 novembre scorso ed è nata su iniziativa della Task Force “Liberare l’ingegno”, composta da rappresentanti del mondo associativo, accademico, imprenditoriale e della ricerca, che Federmeccanica ha costituito con l’obiettivo di “accompagnare” le aziende manifatturiere in un percorso verso la digitalizzazione e la nuova “fabbrica intelligente”. L’introduzione di tali tecnologie avrà anche un importante impatto sull’organizzazione del lavoro e sulle competenze richieste per poter guidare il processo di cambiamento nel modo più efficace. In particolare, l’indagine ha realizzato una “fotografia” della diffusione della conoscenza circa le nuove tecnologie presso le imprese, del livello di adozione delle stesse, dei benefici conseguiti ed attesi e delle intenzioni di investimento su diversi orizzonti temporali.

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L’indagine ha preso in considerazione le 11 tecnologie e alcune skill individuate come abilitanti e qualificanti: Meccatronica; Robotica; Robotica collaborativa; Internet of Things (IoT); Big Data; Cloud computing; Sicurezza informatica; Stampa 3D; Sistemi di virtualizzazione e simulazione di prodotto; Nanotecnologie; Materiali intelligenti e analisi degli aspetti legati alle competenze manageriali.

Ilcampione

L’analisi si è basata su un campione di 527 imprese aderenti a Federmeccanica, di cui il 71,3% si colloca nelle regioni del Nord, il 15% nelle regioni del Centro e il 13,7% nelle regioni del Sud. Il Piemonte rappresenta il 26,2% del campione, la Lombardia il 25,2%; il Nord-Ovest rappresenta il 52,5% del campione; tra le regioni del Sud spiccano la Puglia e la Campania che rappresentano, rispettivamente, il 6,9% ed il 4,9% del campione nazionale.

Il campione rappresenta circa il 3,5% dell’universo della popolazione delle imprese iscritte a Federmeccanica (circa 15.000). Tale campione appare sufficientemente ampio rispetto all’obiettivo di fornire informazioni utili circa quella parte dell’industria italiana che si dimostra più sensibile rispetto alle tematiche dell’innovazione tecnologica.

I prodotti finiti rappresentano la linea di prodotto principale per il 52% dei rispondenti (prodotti finiti per clienti industriali 33% e per il mercato 19%), la fornitura di parti e componenti rappresenta la seconda linea di prodotto per incidenza (21%)

Le aziende rispondenti forniscono in prevalenza la metallurgia e prodotti in metalli (22%), macchine ed apparecchi meccanici (20%) e settori industriali non metalmeccanici (16%).

La gestione familiare è di gran lunga prevalente (51%) seguita da modelli di gestione congiunta tra membri della famiglia controllante e manager esterni (20%)

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I principali risultati dell’indagine

Il 64% delle imprese campione (definite “adopters”) ha dichiarato di avere adottato almeno una delle 11 tecnologie considerate; mentre il 36% (le “non-adopters”) dichiara di non averne adottata alcuna. La distribuzione territoriale degli adopters nel campione è disomogenea: per esempio, la percentuale di aziende che adottano almeno una delle tecnologie considerate nel Nord, nel Centro e nel Sud è rispettivamente 61%, 68%, 71%.

Il campione è composto per il 10% da microimprese (meno di 10 dipendenti), per il 44% da piccole imprese (tra 10 e 49 dipendenti), per il 32% da medie imprese (tra 50 e 249 dipendenti) e per il 13% da grandi imprese (più di 250 dipendenti).

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Le percentuali di imprese che adottano almeno una delle tecnologie proposte è crescente con la dimensione: 42% tra le micro-imprese, 54% tra le piccole, 70% tra le medie e 87% tra le grandi.

In media, le imprese del campione esportano il 40% del fatturato (24% verso EU, 4% verso USA, 5% verso Asia); oltre il 50% del campione dichiara di non esportare fuori dall’Europa.

Rispetto al campione, gli adopters in media presentano le seguenti caratteristiche:

esportano una quota maggiore del proprio fatturato (44% contro 33%);

giudicano elevato il proprio livello di digitalizzazione (37% contro 14%);

hanno una quota più elevata di dipendenti laureati (19% contro 12%);

investono di più in R&D e formazione, hanno più contatti con Università ed enti di ricerca;

considerano più importanti per la propria competitività: la qualità, l’innovatività, la personalizzazione del prodotto e del servizio mentre giudicano il prezzo una variabile meno rilevante. Al contrario, i non-adopters giudicano il prezzo del prodotto più importante rispetto a quanto fanno gli adopters.

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Gli adopters e le imprese che dichiarano alto il proprio livello di digitalizzazione attribuiscono un’importanza significativamente maggiore al miglioramento della produttività, alla rapidità del time-to-market e all’utilizzo di sistemi virtuali per la progettazione e la prototipazione.

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Tra le 11 tecnologie proposte, almeno il 50% degli intervistati dichiara di conoscere, in ordine decrescente di notorietà: la sicurezza informatica (93%), la robotica (85%), la meccatronica (76%), la stampa 3D (75%), il cloud computing (72%), la simulazione di processi e di prodotto (71%), IoT (55%).

Più un’azienda è digitalizzata, più cresce in percentuale il numero delle tecnologie effettivamente adottate.

Le tecnologie sulle quali si concentrano maggiormente le intenzioni di investimento a breve termine (sull’orizzonte di 1 anno) sono: la sicurezza informatica (45%), la simulazione di processi e di prodotto (26%), il cloud computing (21%) e la robotica (20%).

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Il ritardo delle imprese italiane sul tema “Industry 4.0” resta significativo, soprattutto perché le intenzioni di investimento nei prossimi anni sono mediamente basse, in particolare tra i non-adopters. In assenza di azioni correttive il divario tra le imprese più avanzate e quelle più arretrate è destinato quindi ad accentuarsi.

Da quanto emerge dall’indagine si può dedurre che se i temi dell’Industria 4.0 hanno effettivamente cominciato a diffondersi presso il tessuto manifatturiero italiano, tale processo è ancora in una fase iniziale e necessita di una maggiore e più profonda conoscenza delle tecnologie abilitanti.

Tra le possibili azioni da adottare, le imprese indicano come prioritaria l’informazione circa gli strumenti finanziari a supporto degli investimenti, l’aggiornamento e la sensibilizzazione degli imprenditori e lo sviluppo di una campagna di comunicazione che individui aziende campione e diffonda buone pratiche.

Emerge anche, in ogni caso, uno scetticismo diffuso, cui il Governo ha cercato di porre un freno con il piano “Industry 4.0 (l’indagine è precedente), per fare sistema, per favorire una diretta connessione tra le tecnologie e le logiche economiche che possono permettere di sviluppare nuovi modelli di business.

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