La conservazione degli alimenti accompagna l’evoluzione dell’uomo da quando inizia a stabilirsi in società e in zone geografiche limitate. L’insediamento fisso che contraddistingue il passaggio dell’uomo da nomade a civilizzato porta con se enormi cambiamenti non solo di carattere prettamente urbanistico, sociale e organizzativo ma anche di carattere quotidiano. La possibilità di rimanere nello stesso luogo per un tempo più lungo infatti permette all’uomo di approcciarsi in maniera diversa a tanti aspetti e tra questi anche al cibo. Se nella forma più preistorica della sua esistenza l’uomo pensava al cibo esclusivamente come fonte di nutrimento e sostentamento da consumare immediatamente dopo la caccia, l’introduzione di uno stile di vita fisso gli ha permesso di considerare l’opzione di conservare gli alimenti coltivati o cacciati per poterli consumare anche in un momento diverso dalla loro produzione. Lo sviluppo di tecniche di conservazione degli alimenti ha dato il via a quello che sarebbe poi diventato il mercato globale. Andando per gradi però, quello che maggiormente ha inciso sullo sviluppo di tecniche per la conservazione è stato intuire quali tecniche sono le più efficaci per inibire l’alterazione degradativa dei cibi ancora prima dell’individuazione delle cause stesse.
Probabilmente le prime forme di conservazione alimentare sono state ispirate dalla natura stessa e dalla sua osservazione ne sono scaturite tecniche che ancora oggi vengono utilizzate sia nell’industria alimentare che nella dimensione domestica. Ad esempio già nell’antico Egitto, così come ai tempi dei Fenici e dell’antica Roma, si conoscevano le proprietà conservative della salagione e della affumicatura, permettendo ad esempio il commercio di pesce salato e/o affumicato. La messa a punto di questa tipologia di conservazione, ad esempio, ha portato Bologna ad essere, già nel XV secolo, una delle città più famose per la produzione di salumi e insaccati. Già dall’antica Roma quindi era chiaro come alcune sostanze chimiche naturali, quali resine ed oli, fossero i mezzi migliori per ottenere la conservazione prolungata di molte tipologie di alimenti, si utilizzava infatti spesso miele, aceto, salamoie e annessi per la conservazione di carni, frutta e olive. La storia della conservazione, però, cambiò drasticamente verso la fine del 1700 quando, accanto ai metodi di conservazione tradizionali, comparirono le prime tecniche di confezionamento. La storia moderna infatti si caratterizza dalla ricerca e dallo sviluppo di tecniche e metodologie specifiche per ottenere prodotti alimentari confezionati che potessero garantire il loro trasporto e il loro utilizzo dilazionato nel tempo e in luoghi lontani da quello di produzione.
La Sterilizzazione
Alla fine del 1700, a Parigi, fu del pasticcere Nicolas Appert l’intuizione geniale di combinare il riscaldamento in acqua bollente e l’utilizzo di contenitori di vetro a chiusura ermetica per creare quello che poi arriverà fino ai giorni nostri come uno dei metodi più usati per creare le conserve. Non tutti però sanno che la stessa intuizione la ebbe, qualche anno prima, anche Lazzaro Spallanzani in Italia, senza poi in realtà dare troppo seguito alla cosa. Appert invece puntò sulla sua intuizione e senza alcuna conoscenza di microbiologia diede uno dei più grandi contributi nell’evoluzione dell’industria alimentare. In questo modo notò come i cibi riscaldati in acqua bollente e chiusi ermeticamente in vasi di vetro (durante bollitura) possono essere conservati per lunghissimi periodi. Una intuizione che valse ad Appert anche la vincita di un premio messo in palio dal Direttorio francese per chi avesse presentato il miglior progetto per la fornitura di alimenti conservati all’esercito francese. Sull’onda del successo Appert aprì una fabbrica di conserve ed iniziò a produrre fagioli e piselli in scatola. Si apre così ufficialmente l’era dei prodotti alimentari conservati confezionati. La metodologia introdotta da Appert, se efficacemente applicato, è in grado di distruggere i microrganismi e inattivare enzimi e tossine in grado di danneggiare la salute dei consumatori e/o alterare i prodotti confezionati. Il sistema si basa sull’applicazione combinata di alte temperature e pressione sulle confezioni in cui è contenuto l’alimento ermeticamente e passa al secolo come “sterilizzazione”. Con l’introduzione dei primi recipienti di latta, nei primi anni del 1800, si cominciò ad inscatolare diverse tipologie di alimenti: frutta, verdure e ortaggi ma anche pesce e carne che venivano fatti bollire direttamente all’interno del contenitore utilizzando temperature elevate (superiori ai 100°C) e l’ausilio di apposita strumentazione come l’autoclave. Fecero la loro fortuna non solo Appert ma anche Dole, con le conserve di ananas, e Cirio con le conserve di verdure e pelati. Nonostante il processo sia estremamente aggressivo verso le forme microbiologiche eventualmente presenti nell’alimento, non si può comunque considerare il prodotto del tutto asettico per un tempo illimitato. Al giorno d’oggi infatti si parla di “sterilizzazione commerciale” quando il processo elimina quelle forme vegetative che possono riprodursi nell’alimento, deteriorandolo, durante le fasi dello stoccaggio e della distribuzione. Nel tempo il processo si è differenziato in base ai parametri di tempo/temperatura utilizzati, distinguendo così:
• Sterilizzazione classica o Apertizzazione: 100-120°C per un tempo maggiore di 20 minuti, effettuata su alimenti scatolati;
• UHT (Ultra High Temperature) indiretto: 140-150°C per pochi secondi, effettuata sull’alimento sfuso immerso in acqua o in autoclave;
• UHT diretto o uperizzazione: 140-150°C per pochi secondi, effettuata con iniezione di vapore surriscaldato nel prodotto sfuso.
La Pastorizzazione
Se a livello pratico e tecnico la via era ben tracciata già dall’operato di Appert e seguaci, la svolta scientifica arriva con Louis Pasteur, che fu il primo a spiegare, nel 1860, che gli alimenti sono alterati principalmente da microrganismi presenti nell’ambiente, e che questi germi si sviluppano normalmente sui cibi ma sono sensibili alle alte temperature, dando così il via a quella che diventerà la moderna microbiologia alimentare. Pasteur aveva così dato una spiegazione scientifica a quello che Appert aveva realizzato molti anni prima. L’intuizione di Pasteur nasce dalla necessità di trovare la causa che, nella prima metà del XIX secolo, portò quasi alla rovina le grandi industrie francesi della birra e del vino. Molti produttori infatti, riscontrarono grandi problemi e quindi notevoli perdite, nel vino esportato. A volte infatti il vino presentava una eccessiva acidificazione, oppure troppo amaro, o oleoso o ancora annacquato. Nel 1864, dopo approfonditi studi Pasteur affermò che la causa dei problemi legati alla produzione del vino e della birra era la vegetazione microscopica, capace di moltiplicarsi, in condizioni favorevoli, fino ad alterare il prodotto. Propose così di impedire questa proliferazione bollendo il vino e imbottigliandolo in contenitori a chiusura ermetica, in questo modo si distruggeva prima la microflora presente nel prodotto, e s’impediva poi che la bevanda venisse ricontaminata dai microrganismi dell’ambiente. Da queste evidenze mise a punto la tecnica che in suo onore prende il nome di Pastorizzazione e che consiste, diversamente dalla sterilizzazione, nel sottoporre l’alimento o la bevanda ad un trattamento termico che non superi i 100°C.
Si distingue:
• La pastorizzazione a bassa temperatura: attualmente meno usata e che prevede che l’alimento sia trattato con temperature non superiori ai 60°C per un tempo prolungato (circa 30 minuti);
• La pastorizzazione ad alta temperatura: si ottiene usando una temperatura più alta (circa 80°C) per un tempo molto meno prolungato;
• La HTST (High Temperature Short Time): pastorizzazione dedicata prevalentemente ai prodotti liquidi in cui si usano temperature ancora più alte per tempi ancora più brevi.
La pastorizzazione non ha lo scopo di uccidere tutti i microrganismi presenti nel cibo ma piuttosto quello di ridurne il numero in modo che per un certo periodo di tempo non siano in grado di sviluppare effetti patogeni, incidendo quindi sulla carica microbica e la distruzione delle forme vegetative. C’è però da specificare che eventuali spore presenti non vengono disattivate e potrebbero quindi riattivarsi se la conservazione successiva del prodotto non è effettuata correttamente. E’ per questo che solitamente la pastorizzazione è seguita da un rapido raffreddamento del prodotto, e infatti gli alimenti pastorizzati proseguono la loro vita commerciale a temperature controllate come refrigerati oppure sfruttano il sottovuoto per prolungare la loro stabilità microbiologica.
Applicazione della pastorizzazione
Superata la sua primissima applicazione proposta da Pasteur e cioè quella per la bonifica del vino, che per altro al giorno d’oggi non viene più utilizzata, una delle più antiche applicazioni di questo metodo è l’utilizzo nella produzione del latte. Risale infatti alla fine del XIX secolo l’inizio dei processi di pastorizzazione del latte vaccino utilizzato nell’alimentazione umana con lo scopo di eliminare microrganismi pericolosi per la salute dell’uomo, come ad esempio l’agente della tubercolosi. In Italia la pastorizzazione del latte fu introdotta per Regio decreto nel 1929. Nella produzione della birra il trattamento si rende necessario per stabilizzare e conservare il prodotto in quanto sono presenti ancora cellule di lievito in grado di moltiplicarsi molto velocemente. La birra filtrata viene imbottigliata sotto pressione e tappata automaticamente con tappi a corona sterilizzati. Le bottiglie sono poi avviate ai pastorizzatori. In tempi più recenti, per il trattamento di alcuni alimenti, si è diffusa la tecnica della radiopastorizzazione, che prevede l’uso di radiazioni ionizzanti in grado di diminuire la carica batterica totale senza provocare variazioni sensibili sul prodotto.