Anche per Emiliano Brancaccio la comunicazione tra uomo e intelligenza artificiale è una questione aperta, a livello globale, perché le traiettorie di sviluppo economico dipendono in larghissima misura dagli investimenti nel campo della ricerca, quindi una delle questioni fondamentali è capire in che modo si innesti l’attività di ricerca scientifica nella produzione di tecnologie.
Anche per quanto riguarda l’informazione, una delle questioni sollevate da Roberto Vacca, Brancaccio conviene sulla necessità di una riflessione, perché spesso, per ragioni di audience, nel caso dell’informazione televisiva, passano affermazioni, da parte di personaggi molto “popolari”, che nascono da assoluta impreparazione e superficialità. Quando qualcuno, dall’alto della sua “ricchezza”, senza alcun dato attendibile, proclama in televisione, in un salotto mediatico molto seguito, che in Italia ci sono troppi laureati, quando invece la situazione è esattamente il contrario (l’Italia ha una quota di laureati tra le più basse d’Europa), il rischio è che il messaggio passi e abbia una sua influenza anche a livello politico.
In merito a Keynes, gigante dell’economia politica del Novecento, citato da Roberto Vacca, Brancaccio precisa che Keynes parlava dell’eutanasia del rentier, cioè dell’esigenza di portare i tassi di interesse a zero, per potere garantire uno sviluppo sostenibile. È vero che in Italia nonostante gli interessi siano a zero, la situazione non è buona, ma, avverte Brancaccio, Keynes aggiungeva un elemento, che i tassi di interesse devono trovarsi a zero non in termini necessariamente assoluti, ma in rapporto alla crescita del PIL. Noi ci troviamo oggi con tassi di interesse a zero, ma con una crescita del PIL e del reddito negativa. Il ché significa che gli oneri del debito in rapporto al reddito, nonostante i tassi a zero, aumentano. Quindi ci vogliono le due cose per uno sviluppo sostenibile: i tassi a zero non bastano.
Il Papa raccomanda la conversione ecologica globale
Quello della sostenibilità, è oggi uno dei temi più controversi e discussi nello scenario di politica economica mondiale. Persino il pontefice, Papa Francesco, ha affrontato l’argomento e lo ha ribadito nell’incontro del 22 maggio con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump (scettico sulla necessità di operare politiche ambientali), cui ha regalato l’Enciclica del 2015, ispirata al Cantico delle Creature, e dedicata al tema della salvaguardia dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile. Nell’Enciclica Francesco scrive che la crisi ecologica è una conseguenza drammatica dell’attività incontrollata dell’essere umano e che attraverso lo sfruttamento sconsiderato della natura l’uomo rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di tale degrado. E l’Enciclica insiste sull’urgenza e sulla necessità di “un mutamento radicale della condotta dell’umanità”, addirittura “una conversione ecologica globale” per la salvaguardia dell’ambiente e dello stesso genere umano. Ovviamente, lo stile dell’Enciclica è retorico, molto esortativo, richiama al sentimento piuttosto che alla ragione, e la tesi di fondo in un certo senso è un po’ estrema, cioè fa capo a quelle che sono le tesi dei limiti dello sviluppo che erano un po’ più catastrofiste per certi versi. Tuttavia la tesi dell’Enciclica è anche influenzata da un approccio al problema della sostenibilità che vanta illustri predecessori in campo scientifico: il bioeconomista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1994, fondatore della bioeconomia o economia ecologica e della decrescita) e il premio Nobel Wassilii Leontief.
L’Impronta ecologica
Insomma, quella di Bergoglio, l’insostenibilità ambientale del modello di sviluppo, è una tesi che poggia su alcune evidenze scientifiche. Una misura di queste evidenze, abbastanza interessante, è la cosiddetta impronta ecologica, che si può sinteticamente descrivere come il livello di consumo di risorse naturali rapportato alla capacità della terra di riprodurre quelle stesse risorse. I dati più recenti sull’impronta ecologica, che sono riportati dal WWF e da altre agenzie internazionali, ci dicono che ogni anno il genere umano consuma un ammontare di risorse naturali che è oltre una volta e mezzo più grande dell’ammontare di risorse che annualmente la terra è in grado di riprodurre. Questo significa evidentemente che l’attuale modello produttivo mondiale consuma più natura di quanta la terra ne produca e quindi distrugge la dotazione netta di risorse naturali. Idealmente non si dovrebbero consumare più risorse di quanto la Terra è in grado di offrire e rinnovare. Sembra logico, eppure consumiamo decisamente troppo e ben presto il nostro pianeta non sarà più in grado di far fronte alla nostra domanda; le risorse naturali si esauriscono, la produzione di rifiuti aumenta, la biodiversità è minacciata. Per questo motivo, a condizioni date, ed è un’ipotesi forte da un punto di vista epistemologico, si può dire che l’attuale modello produttivo può essere definito insostenibile nel lungo periodo. Ora il criterio dell’impronta ecologica presenta dei limiti, tuttavia si tratta di un criterio interessante. L’impronta ecologica è utile, tra le altre cose, anche per chiarire quali siano i paesi che consumano più risorse naturali di quanti ne producono, e siano quindi in una sorta di posizione di deficit ecologico, e quali siano invece i paesi che producono più risorse naturali di quante ne consumino e quindi possano ritenersi in surplus ecologico rispetto al resto del mondo.
Paesi creditori e paesi debitori
Al netto dei consumi interni, il Canada produce 7 ettari di risorse naturali per abitante, e quindi può essere considerato un creditore ecologico verso il resto del mondo. Anche Svezia, Russia, Australia, Brasile sono paesi che producono più risorse naturali di quante ne consumino per unità di abitante.
Viceversa l’Italia, a livello pro capite, consuma più risorse naturali di quante ne produca, circa tre ettari e mezzo per abitante ed è quindi un paese che potremmo definire, stando a questa logica, debitore dal punto di vista anche ecologico. Anche la Germania, almeno dal punto di vista ecologico, si trova in una posizione di debito, con oltre tre ettari per abitante di eccesso di consumi rispetto alla produzione di risorse naturali che si realizza all’interno del paese.
Infine gli Stati Uniti, nonostante un’ampia dotazione di risorse naturali interne, si trovano in una posizione di debito ecologico, circa quattro ettari e mezzo di eccesso di consumo di risorse naturali per abitante.
L’Enciclica di Bergoglio si ispira chiaramente all’impronta ecologica e il fatto che il Papa abbia regalato una copia di quella enciclica proprio a Trump, assume i connotati di una provocazione interessante.
Politica antiecologica
Il punto è che Donald Trump incarna una visione del capitalismo e dello sviluppo economico che non è molto favorevole verso i concetti di sviluppo sostenibile, di economia circolare, di impronta ecologica e così via. Per dare solo un’idea della sua visione, basta ricordare che Trump, qualche tempo fa, arrivò addirittura a dichiarare che i problemi come il riscaldamento globale o la crisi dei rifiuti sarebbero solo delle invenzioni dei Cinesi per rendere le merci americane più costose e quindi meno competitive a livello internazionale. Ma Trump non parla soltanto, agisce pure in questa direzione, perché il presidente degli Stati Uniti ha promosso una campagna che porterà, a quanto pare, all’abolizione dell’Agenzia Nazionale per la protezione dell’ambiente. È stato inoltre il fautore del ridimensionamento dei vincoli normativi alla produzione di rifiuti e all’immissione di agenti inquinanti, e ha pure proposto un ridimensionamento del sistema di incentivi e disincentivi fiscali in tema di riconversione ecologica dei processi produttivi. E infine, per volere di Trump, gli Stati Uniti non intendono ratificare il pur blando accordo sul clima che era stato stipulato a Parigi, COP21, nel 2015. Insomma, quella dell’attuale amministrazione americana rischia di essere una politica che possiamo definire senza mezzi termini antiecologica, una politica esplicitamente avversa al tema della sostenibilità dello sviluppo.
L’Ecologia un lusso?
Il problema è che la posizione di Trump è attuale, è una visione che fa presa più che in passato e che guadagna consensi, non solo in America, ma anche nel resto del mondo. Il motivo è abbastanza chiaro: la grande recessione internazionale, come l’ha definita il Fondo Monetario Internazionale, che è iniziata nel 2008 e che per molti versi è tutt’altro che risolta, ha cambiato le agende di governo e ha finito per collocare la questione della sostenibilità ecologica un po’ più in basso nella scala delle priorità politiche. In altre parole, l’idea che oggi rischia di essere prevalente è questa: in tempo di crisi l’ecologia sarebbe un lusso che non possiamo permetterci. Questa visione ha iniziato a diffondersi dal 2008. Da quell’anno, nell’Unione Europea gli investimenti pubblici finalizzati alla protezione ambientale sono caduti del 10% e sono anche diminuiti in rapporto alla media degli investimenti pubblici totali.
Un rischio reale e dannoso
La protezione ambientale ha subito tagli non solo in termini assoluti, ma anche in relazione agli altri comparti della spesa statale. E questa contrazione è tanto più grave, tra l’altro, perché è avvenuta in una fase in cui anche le imprese private riducevano di circa il 6% gli investimenti per la protezione ambientale. Ora, qualcuno potrà forse provare a consolarsi con il fatto che in fin dei conti, in tempi di crisi si riduce la produzione di merci e quindi dovrebbero ridursi anche le immissioni inquinanti, la produzione di rifiuti e così via. C’è la crisi, ma in fondo la crisi è un’opportunità perché riduciamo anche i rifiuti, riduciamo anche le emissioni inquinanti. Questo in generale può essere considerato vero, abbastanza, nel senso che di solito l’impronta ecologica segue l’andamento del PIL, cioè sale o scende in funzione del ciclo economico. Tuttavia bisogna fare attenzione a un fatto: che quando la crisi è particolarmente accentuata, allora può verificarsi quella che l’economista Joseph Schumpeter avrebbe definito “una distruzione creatrice negativa”, vale a dire un regresso tecnico che può rendere i processi produttivi più arretrati, meno rispettosi delle compatibilità ambientali e, in ultima istanza, più inquinanti.
L’esempio catastrofico della Grecia
Dal 2008 a oggi, la Grecia ha subito un crollo della produzione aggregata del 25%. Se si considera che l’Italia ha subito un calo dell’8/9%, ed è messa male, si può capire il dramma del paese ellenico, che ha visto svanire un quarto del PIL e perdere più di 800 mila posti di lavoro. È una catastrofe economica che in epoca di pace non ha precedenti e che è dipesa in buona misura anche dalle politiche di austerità che l’Unione Europea ha imposto alla Grecia e a molti altri paesi, inclusa l’Italia. Ora in linea di principio la catastrofe dell’economia greca avrebbe almeno dovuto dar luogo a una piccola consolazione ecologica, cioè avrebbe dovuto provocare anche una riduzione dell’inquinamento, del consumo di risorse ambientali e quindi, in qualche modo, avrebbe anche dovuto contribuire alla riduzione del debito ecologico di quel paese.
Questo è avvenuto però solo in parte, perché ci sono state anche delle sorprendenti, drammatiche eccezioni.
Povertà = inquinamento in crescita
Infatti, l’Osservatorio Nazionale per l’inquinamento in Grecia ha rilevato in questi anni un eccezionale incremento di agenti inquinanti nell’aria delle principali città del paese. Tra le cause di quell’incremento ci sono diversi fattori:
uno di questi è che per rimediare all’aumento dei costi del carburante, nel 2012, quando si discuteva tra la Troika e il Governo greco, è stato abolito il divieto di circolazione di vetture con motore diesel, un divieto che negli anni precedenti aveva molto migliorato la qualità dell’aria ad Atene e in varie altre città della Grecia.
In secondo luogo, il Governo greco in questi anni ha allentato molti dei controlli sul rispetto dei vincoli ambientali da parte delle imprese.
Ma soprattutto – e questo è un simbolo dell’impoverimento di una nazione – non potendo più permettersi l’uso di gas o di derivati del petrolio per il riscaldamento domestico, una parte rilevante della popolazione è tornata a consumare legno per produrre calore. E questo ha determinato non solo una riduzione delle riserve di legno, ma ha provocato anche un marcato deterioramento dell’ambiente, con presenza addirittura di arsenico nell’aria. Il motivo, a quanto pare, come i tecnici dell’Osservatorio Nazionale hanno spiegato, è che molte famiglie si sono ridotte a bruciare anche del legno che aveva subito dei precedenti trattamenti industriali e che per questo rilascia sostanze altamente tossiche nell’aria.
Insomma, in Grecia ci sono famiglie che per riscaldarsi bruciano i mobili!!! E questo contribuisce, a quanto pare, al forte deterioramento della qualità dell’aria.
Il debito economico genera debito ecologico
Ovviamente il caso della Grecia è estremo, ma non è isolato, perché se si considerano i paesi che nel corso dell’ultimo trentennio sono stati colpiti da attacchi speculativi e da crisi valutarie, si scopre che, a seguito di queste crisi, alcuni di questi paesi, la maggioranza, hanno fatto registrare un eccezionale aumento dei tassi di interesse in rapporto al tasso di crescita del PIL, con la conseguenza di un drammatico incremento degli oneri del debito estero rispetto al reddito che tali paesi sono in grado di creare.
Ebbene, stando ai dati della FAO sulla deforestazione, a seguito del deterioramento delle loro posizioni debitorie, questi paesi, in molti casi, hanno drammaticamente accresciuto lo sfruttamento delle foreste, generando in varie circostanze, tassi di consumo multipli rispetto ai tassi di riproduzione delle risorse naturali sfruttate. Si può affermare, quindi, che a volte il debito economico genera debito ecologico.
Decrescita infelice
I casi della Grecia e dei paesi soggetti a crisi debitorie insegnano qualcosa, soprattutto agli apologeti della cosiddetta decrescita felice, vale a dire ai sostenitori di una riduzione generalizzata della produzione di massa quale possibile romantica via di ritorno verso una vita più ecologica, una vita che sia più in sintonia con la natura. In realtà, purtroppo, la decrescita, almeno nella sua manifestazione più cruda, più oggettiva e più reale, che è quella della crisi economica, attiva di fatto un cambiamento strutturale, la distruzione creatrice negativa, che può dare luogo a un vero e proprio regresso tecnologico nei processi di produzione di consumo e che al limite può persino determinare il tragico paradosso di una caduta della produzione, dell’occupazione aggregata, in concomitanza con un aumento dello spreco di risorse e del degrado ambientale.
Equivoci da eliminare
Una delle grandi difficoltà politiche di questo tempo, è che oggi si tratta faticosamente di lottare su due fronti: da un lato, bisogna cercare di contrastare quella visione piuttosto cinica secondo cui lo sviluppo sostenibile sarebbe un lusso che in tempo di crisi non possiamo permetterci; dall’altro lato, però, occorre anche criticare l’idea romantica, anch’essa molto diffusa, secondo cui la crisi in fin dei conti ci indica una via per il ritorno a una età dell’oro, un’età bucolica, nella quale l’uomo produceva di meno e proprio per questo viveva e prosperava in sintonia con la natura. In realtà, a ben guardare, entrambe queste visioni sono sbagliate. Sia pure ognuna a modo proprio, queste visioni incarnano entrambe una filosofia fatalista, antiprometeica, in ultima istanza una filosofia antimoderna e oscurantista. È una filosofia che preferisce affidarsi al corso spontaneo degli eventi e alla connessa eterogenesi dei fini, sia che tale corso sia governato da un’ottica smithiana, egoistica e competitiva, sia che venga guidato da un immaginifico romantico impulso degli uomini verso l’esodo dalla modernità, verso forme antiche di riconciliazione con la natura.
Edificare un modello di sviluppo sostenibile significa anche liberarsi da queste due visioni, una cinica, l’altra romantica, entrambe profondamente sbagliate.
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