Micotossine sintetizzate da funghi che possono proliferare su alcuni alimenti, le aflatossine rappresentano un rischio che è molto spesso sottovalutato all’interno degli ambienti di lavoro nell’agroalimentare.
A differenza delle ormai consolidate procedure per il controllo delle aflatossine negli alimenti, la situazione è diversa per quel che riguarda quelle per il controllo del rischio di esposizione negli ambienti di lavoro.
Un pericolo spesso sottovalutato
L’emergenza nei luoghi di lavoro, è spesso sottovalutata: in alcune aziende, si può avere a che fare anche con aflatossine cancerogene:
– che hanno un’azione genotossica (interazione diretta anche con il DNA cellulare);
– che hanno effetti nocivi noti da anni su animali ed esseri umani più esposti per ragioni alimentari;
– che possono avere un ruolo causale diretto nel 4,6/28,2% dei casi di epatocarcinoma;
– che hanno una pericolosità storicamente collegata alla possibile assunzione attraverso cibi contaminati, ma il cui assorbimento nell’organismo, è possibile che avvenga anche tramite le vie respiratorie oppure, addirittura, per via cutanea (almeno sperimentalmente).
Soggetti potenzialmente a rischio e possibili soluzioni
Per quanto riguarda i lavoratori potenzialmente esposti, potremmo dire che sono quelli impiegati nel comparto agroalimentare, ma non solo. A rischio, anche altri ambiti: raccolta, carico e scarico, deposito, produzione mangimi, essiccazione, trattamenti meccanici, produzione di biogas e altri ancora. Ma cosa fare per tutelare la salute dei lavoratori? È necessaria un’informazione obbligatoria, l’applicazione delle buone prassi di prevenzione per proteggere al meglio ogni persona esposta, la misurazione del rischio residuo e dell’efficacia delle misure adottate, la sorveglianza sanitaria e l’obbligo di denuncia in caso di epatocarcinoma, attuale o ex esposto.
Aflatossine, poca attenzione e scarsa regolamentazione
é importante soffermarsi anche sulla poca attenzione e la scarsa regolamentazione sulla possibile esposizione professionale alle aflatossine e sulle modalità di prevenzione. A dimostrazione di ciò, la limitata quantità di studi epidemiologici o approfondimenti sperimentali su quelli che sono gli effetti sanitari e livelli di esposizione professionale, all’interno delle aziende – numerose – che trattano prodotti alimentari o mangimi contaminati, in maniera diretta o indiretta. Ma non solo: sono assenti normative specifiche di prevenzione a tutela dei lavoratori esposti; le aflatossine, inoltre, paradossalmente non sono comprese nella lista UE dei cancerogeni professionali. L’unico riferimento normativo specifico in tema di esposizione professionale – è l’inserimento dal giugno del 2014 dell’epatocarcinoma nella lista delle Malattie Professionali, con obbligo di denuncia, nel caso di precedente esposizione professionale ad Aflatossina B1.
Le probabili ragioni del disinteresse
Il disinteresse intorno al tema aflatossine, probabilmente, è dato dal fatto che queste micotossine, classificate come cancerogeni ‘naturali’, prodotti da muffe, rappresentano elementi ai quali è difficile sottrarsi e, di conseguenza, spaventano meno. Probabilmente, sono anche concepite come qualcosa di meno pericoloso rispetto ai cancerogeni ‘di sintesi’.
Inoltre – siamo sempre nel campo delle ipotesi – il problema dell’esposizione alimentare è più evidente nei paesi ‘in via di sviluppo’. In occidente, l’evidenza epidemiologica di danni derivati da aflatossine è di più complessa documentazione.
A ogni modo, di aflatossine e del rischio professionale a esse legato, se ne parla poco anche all’interno delle aziende nelle quali è consistente l’esposizione per via inalatoria. È stato già ampiamente dimostrato che l’aflatossina B1 inalata, trasformatasi localmente in epossido, agisce direttamente sul tessuto polmonare. Pochi, in realtà, sono i dati certi relativi agli effetti nocivi sui lavoratori esposti.
Aflatossine: cosa sono e dove si possono trovare
Le aflatossine sono micotossine prodotte da specie fungine appartenenti alla classe degli Ascomiceti (genere Aspergillus), Fusarium, oppure da altre muffe. Il termine aflatossina deriva proprio dall’Aspergillus flavus, responsabile della prima epidemia da micotossine documentata, nel 1961.
L’Aspergillus flavus produce i tipi B1 e B2, l’Aspergillus parasiticus, invece, sia i tipi B sia i tipi G1 e G2. I cereali, la soia, i legumi, il cotone, le spezie, le granaglie, la frutta secca ed essiccata, alcuni tipi di mandorle e le arachidi – sia durante la coltivazione sia durante il raccolto e l’immagazzinamento – sono le derrate alimentari più frequentemente contaminate da aflatossine, sostanze che non sono sempre facili da individuare in un alimento. A ogni modo, la presenza di Aspergillus flavus in un alimento, non è sempre sinonimo di contaminazione da aflatossine. Queste ultime, infatti, sono prodotte solo con condizioni di stress alle quali vengono sottoposte le piante, come umidità e alte temperature (tra 25°C e 32 °C), siccità, scarsa difesa fitosanitaria e concimazione non corretta. Presupposti di questo tipo si registrano, per esempio, nei campi della Pianura Padana, dove la contaminazione del mais è facilitata dal caldo e dall’umidità dell’estate e soprattutto nelle zone tropicali e subtropicali, caratterizzate da grande siccità.