Prodotti disinfettanti, i rischi connessi all’emanazione di una normativa europea temporanea
La pandemia di SARs-CoV-2 ha portato a modificare il Regolamento comunitario riguardante le procedure di autorizzazione all’immissione in commercio dei disinfettanti, con un periodo transitorio di 180 giorni in cui le maglie per il controllo sembrano allentate
Dott. Marco Ferrari
Ci sono fondati motivi di preoccupazione per chi si occupa di igiene ospedaliera e controllo del rischio infettivo, particolarmente in questo periodo dominato dall’emergenza COVID-19. Tutto nasce il 6 aprile scorso, quando sul sito del Ministero della Salute si cita una modifica temporanea del Regolamento relativo alle procedure di autorizzazione alla commercializzazione e alla produzione di prodotti disinfettanti in Italia (PT1/PT2). C’è soprattutto un link a un documento ufficiale di tre pagine (in italiano e in inglese) dove balza agli occhi fatto che il testo è privo di data.
Dall’ultimatum alle disposizioni transitorie
Prima di procedere con l’analisi del nuovo Regolamento, occorre fare un passo indietro e ricostruire una serie di fatti che hanno portato alle attuali modifiche. Va ricordato, innanzitutto, che – a livello di Commissione Europea (CE) – era stata stabilita la data del 26 maggio di quest’anno come termine ultimo per tutti i Paesi membri che ancora non l’avessero fatto (tra cui il nostro) per uniformarsi alla nuova normativa che prevede la conversione del termine disinfettanti in biocidi. Ma all’avvicinarsi del giorno in cui avrebbe dovuto scattare tutto questo meccanismo, quando molti avevano già provveduto in Italia a fare domanda e altri stavano ancora aspettando (sperando forse in un’ulteriore proroga dei termini) è arrivata l’emergenza COVID-19.
La normativa italiana, in sintesi
L’Italia, in particolare, è l’unico Paese con una normativa che prevede la registrazione dei disinfettanti come presidio medico chirurgico (PMC). Questi prodotti – PMC o disinfettanti – devono possedere un numero di registrazione in capo al Ministero della Salute e una serie di documentazione di verifica sulla loro attività e di studi che ne validano la bontà; il Ministero italiano si era pronunciato sull’argomento evidenziandone elementi incongrui e oggi è previsto che, nel caso di sanitizzanti e sanificanti privi di un’autorizzazione al Ministero della Salute, si usi esclusivamente il termine di igienizzanti. Questa normativa, non presente in tutto il resto d’Europa, obbligava anche i produttori esteri a sottostare alla nostra “burocrazia”. Fu fatto presente più volte da varie aziende italiane della volontà di uniformarsi alle regole della CE e proprio l’Italia aveva posto come deadline la data del 26 maggio per convertire – come prevede l’Europa – il termine disinfettante in quello di biocidi.
La CE, il 3 aprile scorso, formula una ipotesi di proposta di modifica del Regolamento (UE) 2017/745 del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2017, relativo ai dispositivi medici, che ha per oggetto il rinvio di un anno della sua applicazione. Il Regolamento (UE) ha definito un nuovo quadro normativo inteso a garantire il corretto funzionamento del mercato interno dei dispositivi medici, tutelando allo stesso tempo la salute dei pazienti e degli utilizzatori e tenendo conto delle piccole e medie imprese attive nel settore. Inoltre, la CE ha ritenuto di avanzare una proposta di rinvio dell’applicazione del regolamento europeo facendo slittare la data del 26 maggio di un anno, in considerazione del fatto della crisi legata al virus che sta richiedendo a tutti gli Stati membri uno sforzo organizzativo tale da non poter garantire l’applicazione e l’attuazione di questa nuova normativa nella data indicata. “Per garantire la continua disponibilità dei dispositivi medici sul mercato dell’Unione, compresi i dispositivi medici che sono di vitale importanza nel contesto della pandemia di Covid-19 e della relativa crisi sanitaria”, è stato spiegato, “è altresì necessario adeguare determinate disposizioni transitorie del Regolamento (UE) 2017/745 che altrimenti non sarebbero più applicabili a decorrere dalla data di applicazione di tali disposizioni”.
Gli elementi di criticità della circolare ministeriale
A livello europeo – e non solo italiano – il 6 aprile viene licenziata una circolare (come detto, riportata senza data). In ogni caso, da allora è vigente questa nuova normativa che si riferisce alle procedure di autorizzazione e alla commercializzazione e produzione dei prodotti disinfettanti in Italia (che rientrino nella fascia tecnica PT1 e PT2, quindi disinfettanti per mani, superfici, etc.). Si ribadisce che tutti i prodotti che vantano azione disinfettante, battericida o virucida o qualsiasi azione atta a combattere microrganismi devono essere preventivamente autorizzati dal Ministero della Salute (fin qui niente di nuovo: era la normativa Ue). La vera novità sta nel fatto che, proseguendo nella lettura della circolare, si apprende che l’Italia – in collaborazione con l‘ECHA (Ente Europeo delle Sostanze Chimiche) nell’ambito delle misure per la prevenzione e la gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 – procedendo come gli altri Paesi europei ha deciso di emettere un’autorizzazione provvisoria di 180 giorni. Questo cosa vuol dire, in pratica? Che la consueta normativa che prevedeva di fare tutti i passaggi sopracitati (come presentare i documenti e pagare una tassa per poter ottenere l’autorizzazione all’immissione in commercio di disinfettanti biocidi) in questo momento viene a cadere. Però tutti coloro che ritengono di avere una molecola che rientri sostanzialmente nei parametri individuati dal Ministero e ritenuti validi a livello europeo potranno – presentando una documentazione abbastanza ‘snella’ (come si può desumere scorrendo il comma 2 della sezione Autorizzazione prodotti), hanno 3 mesi di tempo per l’immissione in commercio di tutto quello che riguarda la lotta al COVID-19. Da quanto si legge emergono ulteriori elementi di perplessità. Nella circolare non sono esplicitamente richiamati i principi attivi che il Ministero oggi ha individuato come le uniche tre sostanze efficaci: i derivati della candeggina o dell’ipoclorito o cloroattivi, gli alcoli etilici, metilici e isopropilici 68% e il perossido di idrogeno (o acqua ossigenata). Anche qui, dunque, si rischia di creare grande confusione perché molte aziende commercializzano anche molecole ritenute di basso livello (come i quaternari d’ammonio, spesso in vendita in farmacia come blandi disinfettanti ma che in ospedale sono stati banditi da ormai 15 anni perché si contaminano facilmente, hanno uno spettro d’azione molto blando e in più danno reazioni eczematose al personale). Si spera che chi dovrà valutare queste richieste di autorizzazione in commercio entro breve tempo faccia una valutazione attenta e le conceda solo ai principi attivi che oggi sono riconosciuti validi contro il COVID-19.
Problemi nel controllo della veridicità delle richieste
Leggendo nella sua interezza la normativa, questa appare abbastanza semplicistica perché si afferma, per esempio, che non è necessario presentare studi di efficacia, dando per scontato che il principio attivo già abbia prove in questo senso. Inoltre, i prodotti con formulazioni raccomandata dagli European Centers for Disease Control o dal WHO sono automaticamente riconosciuti così come i prodotti già autorizzati in altri Stati membri o, ancora, prodotti la cui efficacia sia desumibile dalla composizione (“presentare giustificazione” [sic]). Ma il criterio che maggiormente fa correre il rischio di creare confusione si trova ancora nel “famoso” comma 2 dove si afferma che la produzione di disinfettanti come PMC deve avvenire in stabilimenti autorizzati ai sensi del DPR 392/98. Se però un’azienda che commercia un prodotto finito compra la materia prima a monte da un altro produttore, dovrebbe verificare se quest’ultimo ha già l’autorizzazione a produrre un PMC registrato altrimenti, verrebbe da credere, non è possibile procedere automaticamente con il consueto lavoro. Inoltre, ci si pone la domanda: applicando questa gravosa procedura nell’attuale emergenza, chi e quando controllerà la veridicità di tutto quello che verrà presentato nelle domande che, presumibilmente, giungeranno in grande quantità? E ancora: che cosa succederà dei prodotti che verranno approvati in questo periodo e, soprattutto, al termine dei 180 giorni? Per esempio: se oggi è in vendita un prodotto che non è un PMC ma è definito igienizzante, domani lo si potrà presentare con lo stesso nome o con un nome di fantasia trovando la stessa molecola da una parte considerata igienizzante e dall’altra PMC? Insomma, all’interno del documento ci sono una serie molte lacune che non vengono chiarite nei documenti allegati e che lasciano notevoli perplessità.
Possibili ricadute sull’industria del settore e in fase 2
Inoltre, si apre una nuova possibilità, ovvero che un domani questo metodo di sospensione temporanea di normative possa essere replicato in altri settori: e questo sarebbe un ulteriore motivo di preoccupazione, dato che l’Italia sotto questo profilo è uno dei Paesi più rigidi (basti pensare che, in questo ambito, per la Food and Drug Administration statunitense le reti della maglia sono molto più larghe di quelle europee). Non solo: con questo provvedimento rischiano di essere penalizzate quelle aziende produttrici di disinfettanti, soprattutto italiane, che in questi anni hanno fatto investimenti importanti in un settore (abbandonato dalle grosse multinazionali per via di marginalità di guadagno molto basse anni fa rispetto alla farmaceutica) reso ancora più complesso dalla ricerca di nuove molecole che rispondessero ai requisiti della normativa dei criteri ambientali minimi. In questo senso molte aziende del settore di notevole serietà potrebbero risentirsi di una normativa che di fatto consente un’eccessiva libertà. Da segnalare, tra l’altro, che, con una nota del 6 aprile inviata a tutti gli associati, Federchimica Confindustria rende nota la decisione europea. Al di là dell’aspetto industriale, la preoccupazione nasce dalla seguente considerazione. La fase 2 prevede infiniti controlli (nell’utenza domestica, nelle RSA, negli uffici) e una serie di normative stringenti quali la disinfezione due volte al giorno, la disinfezione dei canali aeraulici perché a condizionamento, la sanificazione prima e durante la riapertura. Il rischio, allora, è che se non si adottano procedure e protocolli codificati e validati, gli esercenti possono pensare di attuare procedure valide ai fini del contenimento dei COVID-19 e trovarsi invece a far fronte a possibili rebound infettivi. Per essere espliciti: il timore è che, in questo stato di cose, qualcuno ne possa abusare o che ci siano anche delle non verifiche dovute all’emergenza. E soprattutto che – con l’alibi del non essere nei tempi per applicare quello che era previsto nella normativa europea in data 26 maggio – si stia facendo una sorta di sanatoria, creando una situazione di caos se non verrà governata e controllata a dovere.