Ricciardi: così deve cambiare la Sanità dopo il Covid-19
Il docente di Igiene e Medicina Preventiva all’Università Cattolica di Roma, si sofferma sui punti di debolezza del nostro sistema sanitario e individua come ambiti di intervento: l’integrazione tra ospedale e territorio e quella sociosanitaria (RSA).
di Arturo Zenorini
La pandemia di Covid-19 ha messo a dura prova la tenuta del nostro Servizio Sanitario Nazionale (SSN), soprattutto nelle Regioni del Nord Italia. L’emergenza epidemiologica – contro la quale non vi sono tuttora vaccini o farmaci – in alcuni momenti ha quasi sopraffatto l’impegno di medici, infermieri, uomini e donne della protezione civile, anche per carenze di strutture o di materiale sanitario. Oltre a costituire un dramma in perdita di vite umane e un grave danno economico per il Paese, questa condizione ha permesso di evidenziare varie lacune del SSN, alcune già note, altre meno, tutte ritenute ora da colmare il prima possibile, così da poter gestire meglio in futuro non solo situazioni di emergenza ma anche la normale erogazione dei servizi. Su questi aspetti abbiamo sentito l’opinione di uno dei massimi esperti del settore, Walter Ricciardi, professore ordinario di Igiene e Medicina Preventiva all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, nominato quest’anno consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza per l’emergenza Covid-19 e rappresentante italiano presso il consiglio dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità).
Prof. Ricciardi, l’emergenza COVID-19 sta evidenziando i punti di forza del nostro SSN ma anche i suoi elementi di criticità. Quali sono le sue considerazioni al proposito?
Direi che i punti di forza sono rappresentati indubbiamente dalle persone. Nel senso che il personale ha reagito a volte in maniera quasi eroica, soprattutto negli ospedali dove si è verificata una specifica resistenza degli operatori sanitari mentre sicuramente meno efficiente, per una serie di motivi, è stata la risposta del territorio e della medicina generale. Sotto il profilo dei punti di debolezza, sicuramente la frammentazione decisionale del nostro Paese e anche un ritardo notevole della trasformazione digitale ci hanno reso questa lotta più difficile. Poi, naturalmente, siamo arrivati a fronteggiare l’epidemia in una condizione di debolezza, soprattutto in alcune Regioni, legata ad anni di sottofinanziamento. Devo dire che dal punto di vista finanziario è stato fatto un recupero notevole in quanto il Ministro è riuscito a recuperare risorse importanti e altre ne recupererà nel prossimo decreto. Però questo sicuramente non risolverà i problemi nell’arco di giorni o settimane. Ci sarà bisogno di una lunga attività di accurati investimenti e di riorganizzazione che vadano proprio a rafforzare i punti di forza con l’inserimento di altre persone che, a loro volta, andranno a colmare i nostri punti deboli.
Quali insegnamenti si possono trarre, a livello di politica sanitaria, dall’esperienza della pandemia da SARS-Cov-2?
Un servizio sanitario moderno – che naturalmente regga di fronte a un evento di questo tipo ma anche in generale della gestione soprattutto della cronicità e della tutela delle fasce più vulnerabili – è un servizio basato su tre perni, ospedale e medicina territoriale, distinta in medicina di famiglia e medicina distrettuale, i quali sono tutti Indispensabili: se ce n’è soltanto uno o due, il servizio è monco come è accaduto in alcune Regioni. Per esempio, se il servizio è incentrato soltanto sul perno ospedaliero è chiaro che la mancata organizzazione della medicina generale e le carenze della medicina territoriale tra sanità pubblica e prevenzione emergono in pieno. Non è un caso che questo si è verificato in Regioni che questi due perni li avevano molto deboli. In realtà però non si può dire che ci sia alcuna regione ottimale sotto questo punto di vista e la riorganizzazione sarà proprio nel far sì che questi tre perni migliorino: naturalmente quello principale, l’ospedale, deve rimanere più sviluppato ed efficiente ma anche gli altri due devono crescere, la medicina generale con una migliore organizzazione e probabilmente anche con un cambiamento di assetto giuridico e contrattuale, e la sanità pubblica territoriale con maggiori investimenti.
Come dovrebbe cambiare, rispetto ad ora, l’organizzazione dei servizi sanitari tra ospedale e territorio nella gestione dei pazienti?
Le strutture territoriali della medicina generale e la medicina distrettuale – quella dei dipartimenti di prevenzione – devono essere ben raccordate. Il problema è soprattutto quello dei medici di medicina generale che, in questo momento, hanno un inquadramento da liberi professionisti con una convenzione. È chiaro che questo tipo di inquadramento contrasta completamente a meno che non vengano fatte azioni sulla base della volontarietà e dell’individualità. Quello attuale, inoltre, non è un assetto che risolve i problemi epidemiologici ma neanche i problemi economici perché il Paese uscirà da questa situazione notevolmente impoverito e si sa molto bene che impoverimento e malattie sono strettamente collegate. Quindi per fronteggiare questa sfida c’è bisogno di un cambio radicale ovvero bisogna cogliere l’opportunità per far sì che gli altri due perni vengano ristrutturati in maniera forte. E poi occorre attuare una forte integrazione sociosanitaria, che attualmente manca come si è visto, per esempio, nel caso delle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA). In queste strutture si è assistito a casi per certi versi sconcertanti, con strutture completamente prive di qualsiasi correlazione con la Sanità, molto spesso gestite da privati, frequentemente gestite male, dove non a caso si è concentrata la metà dei morti che abbiamo avuto in questo Paese. L’integrazione tra ospedale e territorio e l’integrazione tra sociale e sanitario sono sfide non facili da vincere perché necessitano di visione, volontà politica, leadership e capacità manageriali. Però sono l’unica possibilità che abbiamo per risolvere stabilmente i problemi e dare risposte efficienti ai cittadini.
Al di là dell’emergenza Covid-19, da anni il problema delle infezioni nosocomiali è rilevante in Italia. A tale proposito, ritiene che potrebbe essere utile, nell’ambito di un ospedale generale, rivedere l’organizzazione di chi opera nei reparti di infettivologia, che a volte lamentano di sentirsi relegati?
Non c’è dubbio che l’Italia da questo punto di vista è un anello debole dell’Unione Europea, tanto è vero che i dati sulle infezioni ospedaliere e sull’antibiotico resistenza ci relegano sempre all’ultimo posto rispetto agli altri Paesi più virtuosi del Nord. Questo deriva essenzialmente da una mancanza – che noi sempre abbiamo – di cultura della prevenzione del rischio biologico. Non è tanto un fatto di relegare l’infettivologia ma di mancanza di capacità di aggregare vari termini che sono naturalmente l’infettivologia ma anche l’igiene, la microbiologia oltre che, naturalmente, la direzione sanitaria e altri servizi importanti come l’ingegneria clinica. Questo raccordo è molto raro negli ospedali italiani e il rischio infettivo/biologico viene visto come uno dei vari rischi mentre invece sta diventando il rischio principale dell’ospedale. Questo, quindi, dovrebbe portarci non solo a una radicale riorganizzazione del modo di affrontare il problema ma soprattutto a una maggiore attenzione e focalizzazione sul problema. I comitati che si occupano di infezioni ospedaliere dovrebbero essere sempre attivi in tutti gli ospedali italiani mentre mi risulta che solo a volte lo siano, in altri casi non lo sono oppure sono attivi solo sulla carta. È quindi chiaro che alla fine noi siamo un Paese che ha un tasso di infezioni ospedaliere e di antibiotico resistenza molto alto, estremamente distante rispetto per esempio a quello dell’Olanda o dei Paesi Scandinavi. Non si tratta però di una questione di capacità professionale ma proprio di attenzione.
La possibilità di una lungodegenza per la riabilitazione respiratoria nei pazienti che hanno superato la fase più critica potrebbe portare alla re-istituzione dei “sanatori”, riconvertiti alla fine degli anni Settanta in reparti di infettivologia?
La possibilità di un recupero di quel tipo di struttura non è esclusa ma va analizzata in funzione dello studio di questi pazienti. I clinici ci rendono noto che questi pazienti, anche quando guariscono dal Covid-19, hanno dei residuati importanti in termini clinici, che peraltro non sono soltanto respiratori. Quindi sicuramente ha un senso guardare al recupero a lungo termine di questi pazienti in maniera olistica, ovvero nell’accezione generale del recupero. Se poi questo corrisponda alla riapertura di strutture specifiche, questo è ancora presto per dirlo.
In ultima analisi, qual è la sua visione di una Sanità ideale per il nostro Paese?
Una Sanità ideale per l’Italia – cioè ritagliata sulle caratteristiche del nostro Paese – la vedo con uno Stato centrale forte dal punto di vista tecnico-scientifico, quindi dotato di agenzie e tecnostrutture molto robuste che analizzino i problemi e diano soluzioni ai decisori, i quali naturalmente devono essere quanto più vicini alla popolazione – quindi a livello regionale, provinciale e comunale. Il livello locale, cioè, è importante. Però quello che stiamo vedendo è come una Sanità strutturata nel modo attuale presenti gli aspetti peggiori sia del centralismo che della decentralizzazione. Per questo dovremmo cercare un nuovo modello che ottimizzi la centralità per quanto riguarda il supporto tecnico-scientifico, la programmazione, il finanziamento e il controllo. Per quanto riguarda l’erogazione, sicuramente è adeguato il livello regionale e locale, però con un raccordo strutturato: non ci può essere cioè questo tipo di asimmetria così forte che in tempi di pace produce “solo” disuguaglianze – ma disuguaglianze eclatanti che significano diversa durata della vita e diversa qualità della vita – e in tempi di necessità e di guerra (come quella alla pandemia) produce morti e feriti, nel senso che causa una permeabilità al virus e un ritardo nelle decisioni che alla fine costano vite. Quindi questa è la Sanità ideale che chiaramente, nel nostro Paese, necessita di un cambiamento della Costituzione e di volontà politica nel realizzarlo. Speriamo che questa esperienza che ha evidenziato tutta una serie di aspetti negativi ci possa indurre a cambiare.
Intervista realizzata in collaborazione con la testata Progettare per la Sanità (Quine-Edra)