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Lo smart working manda in crisi ristorazione e imprese di pulizia

La riduzione delle presenze in molti luoghi di lavoro sta creando gravi problemi soprattutto ai settori della ristorazione, del cleaning e dei trasporti

Simone Ciapparelli

Lo smart working, misura utilizzata su larga scala dal Governo per contrastare l’avanzata dei contagi, è senza dubbio una soluzione comoda per molti lavoratori: esso consente di ottimizzare i tempi eliminando la percorrenza del tragitto casa-lavoro e di risparmiare a livello economico eliminando le spese per benzina, trasporti e pranzo. Ma soprattutto, il lavoro da remoto è un metodo efficace per ridurre il contatto tra persone, e quindi il diffondersi del virus. 

La riduzione drastica della circolazione di persone mette però in crisi settori come quelli dei trasporti e della ristorazione: Secondo l’Anav, l’associazione delle aziende di trasporto pubblico locale aderente a Confindustria, fino ad oggi la riduzione media di passeggeri trasportati nel periodo gennaio-agosto, rispetto allo stesso periodo del 2019, è stata pari a circa due miliardi di unità, ovvero il 60% circa,  e ci si attende, per quanto riguarda gli ultimi mesi dell’anno, un ulteriore calo del 30%. Questi dati significano perdite, per le aziende del settore, che potrebbe arrivare a un miliardo e 700mila euro in tutto il 2020.

Secondo Giuseppe Vinella, presidente di Anav, è necessario ripensare il ricorso generalizzato allo smart working: “Esso ha assolto una funzione importante nella gestione dell’emergenza, ma ora rischia di diventare un ulteriore strumento di crisi per interi settori dell’economia. Non solo dei trasporti, ma per le nostre città, già duramente colpite dall’assenza di turisti”.

Il ministero del Lavoro stima, ad oggi, 800mila dipendenti privati in attività da remoto. Il dato reale è però sicuramente più alto, visto che quello fornito si basa sulle sole comunicazioni aziendali pervenute al Ministero. Bisogna inoltre sommare a questi dato i dipendenti della Pa, per il 50% in attività da casa fino al 31 dicembre, con cui si arriva a 3 milioni e mezzo di persone in smart working. Numeri che fanno capire le cause della crisi della ristorazione collettiva che, insieme al settore dell’horeca, ha risentito maggiormente delle conseguenze derivanti dalla pandemia. Secondo i dati più recenti,  la ristorazione collettiva ha perso il 67% di fatturato complessivo tra marzo e aprile e una parte del mese di maggio, pari a circa 810 milioni di euro.  Un prolungamento dello smart working si potrebbe tradurre in 340 milioni di pasti in meno serviti dalle mense aziendali nel 2020: l’osservatorio Oricon rileva che nel settore ci sono ancora 61mila lavoratori in esubero o in cassa integrazione, su un totale di 96 mila, soprattutto donne e con un’età media intorno ai 50 anni, caratteristica, quest’ultima, che rende questi lavoratori difficilmente ricollocabili. I ricavi dell’intero comparto, secondo le previsioni più ottimistiche, passeranno dai 4 miliardi del 2019 a poco più di 2,7 nel 2020 (-34%). “Per chi si occupa solo di ristorazione collettiva – commenta Renato Spotti, amministratore delegato di Dussmann Service – l’impatto è drammatico e servono iniziative di sostegno adeguate, come la proroga degli ammortizzatori sociali fino alla totale ripresa delle attività, la sospensione temporanea della decorrenza dei contratti pubblici con la possibilità di dilazionare gli ammortamenti su un arco temporale più lungo, l’azzeramento delle tasse locali e sui rifiuti, il rinvio delle scadenze fiscali e contributive sino alla ripresa. In mancanza di tali misure, molti operatori non saranno in condizione di riprendere l’attività. A oggi l’intero mercato stima una perdita di fatturato intorno al 30% e una riduzione dei margini pari al 50%”.

Tra coloro che torneranno al lavoro, inoltre, molti continueranno ad evitare le mense. Un lavoratore su tre, infatti, preferisce mangiare da solo e non con i colleghi: “Siamo convinti che quello del pranzo rimarrà un momento di socializzazione e benessere, la tendenza ad evitare le mense non si trasformerà in abitudine” – commenta Valentina Pellegrini, vice presidente di Pellegrini Spa – “In questa situazione delicata abbiamo investito nella comunicazione con l’utente, che può prenotare in anticipo il pasto, ritirarlo in mensa in totale sicurezza e consumarlo dove preferisce. Abbiamo progettato anche un nuovo servizio di take-away e studiato concept per un servizio disponibile anche fuori dai consueti orari”.

Lo svuotamento degli uffici si ripercuote negativamente anche sui fatturati delle imprese di pulizia, nelle quali sono impiegati 40 mila lavoratori in tutta Italia: queste, infatti,  stimano un calo del 15% sul fatturato 2020.  L’Anip, associazione che le rappresenta, rivela che quasi tutte le associate hanno avuto problemi a causa dello stop delle imprese e dalla riduzione delle presenze nei luoghi di lavoro, compensati solo in parte dall’esplosione delle richieste di sanificazione, e sono state costrette a ricorrere agli ammortizzatori sociali.

Smart working e buoni pasto: sì o no?

La definizione fornita dal Decreto che regola le disposizioni sui buoni pasto per i lavoratori è la seguente: Per attività di emissione di buoni pasto si intende l’attività finalizzata a rendere, per il tramite di esercizi convenzionati, il servizio sostitutivo di mensa aziendale.

Questi buoni possono quindi essere forniti a tutti i lavoratori dipendenti, a tempo pieno, parziale o con un rapporto di collaborazione anche non subordinato, che non hanno a disposizione una mensa aziendale. I buoni possono inoltre essere resi al lavoratore che da contratto non ha diritto a una pausa pranzo. 

Essi non sono, comunque, obbligatori: i buoni sono un beneficio accessorio, come le auto e i telefoni aziendali, e il datore può decidere se erogarli oppure no, a meno che non siano previsti nei contratti collettivi o nella contrattazione di secondo livello o individuale.

Resta ora da capire se il dipendente che sta lavorando in modalità Smart Working presso la propria abitazione, ha diritto a questo tipo di beneficio. La stessa legge presa in esame prima afferma che il lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato, in attuazione dei contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda.

Il trattamento economico del dipendente dovrebbe quindi rimanere invariato, ma non essendo i buoni nominati in modo esplicito nel testo della legge, quest’ultima si presta a diverse interpretazioni.

Ogni azienda o amministrazione decide autonomamente se concedere i buoni pasto in una giornata di smart working, basta inserire quanto stabilito dal datore di lavoro nell’accordo individuale relativo alla modalità di lavoro agile, obbligatorio per legge. L’accordo va stipulato tra i dipendenti e l’azienda, in modo da  regolare per iscritto la prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali. Tramite questo accordo, il datore di lavoro può quindi decidere se erogare o meno i buoni pasto durante una giornata di lavoro da remoto.

Le aziende o le amministrazioni che garantiscono i buoni pasto in regime di lavoro agile lo fanno perchè lo smart working non significa solamente lavorare da casa: durante questo regime lavorativo, infatti, può recarsi in un coworking, oppure lavorare presso una sede distaccata dell’azienda. Ciò che ne deriva è che,  come un dipendente ha bisogno di mangiare fuori casa quando lavora nel suo ufficio, allo stesso modo avrà bisogno di farlo anche quando sta svolgendo le sue mansioni in un’altra sede lavorativa. Nel caso, invece, di un dipendente che lavora da casa, il buono pasto sostituisce il servizio di mensa aziendale, e risulta utile anche per i pasti consumati nella propria abitazione.

Molte aziende o amministrazioni, invece, durante le giornate di smart working non erogano il buono pasto né permettono ai dipendenti di usufruire del servizio mensa,  perché il beneficio del buono pasto viene equiparato ad altri trattamenti compensativi, che però non impattano direttamente sul “trattamento economico” del lavoratore. A motivo della mancata erogazione, si adduce il fatto che il dipendente, lavorando da casa, non avrebbe la necessità di utilizzare un buono pasto. 

Molte amministrazioni utilizzano comunque i soldi risparmiati dai buoni non erogati per creando un fondo dal quale attingere per elargire dei benefit comuni a tutti i lavoratori, come ad esempio l’ammodernamento dei computer.

Quando si parla di buoni pasto in regime di smart working, quindi, ogni azienda può decidere se concederli o meno, a patto che la decisione venga inserita nell’accordo individuale sul lavoro agile che deve essere stipulato tra l’organizzazione e i dipendenti.

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