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La corsa alle materie prime rare

Una problematica sempre più pressante per il futuro dell’industria Made in Italy. Intervista a due voci al dottor Alberto Claudio Tremolada e al professor Flavio Tonelli, autorevoli esperti ai quali abbiamo chiesto di tracciare il quadro della situazione

Il complesso problema dell’accesso alle materie prime critiche continua ad essere al centro dell’attenzione, suscitando non poche preoccupazioni nel mondo produttivo italiano. Nel caso dell’Italia, la dipendenza dalla Cina appare quasi totale, il che preoccupa non poco. È stato proprio il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso a lanciare, nelle scorse settimane, il grido d’allarme nel corso della sua audizione in Commissione Industria al Senato. C’è “un rischio elevato di approvvigionamento delle materie prime critiche, cioè quelle non energetiche e non agricole e molta parte di queste arrivano dalla Cina”, ha dichiarato. Urso ha inoltre rilevato che l’Europa sulle materie prime critiche “dipende quasi esclusivamente dalle importazioni”, acquista il 97% dalla Cina, mentre le terre rare pesanti sono raffinate esclusivamente in quel lontano Paese. Senza contare che il 63% del cobalto mondiale è estratto in Congo e il 60% è raffinato in Cina. Dunque Urso ha indicato che i rischi cui siamo esposti sono evidenti. Il fabbisogno delle materie prime critiche è destinato ad aumentare in modo esponenziale, visto che sono coinvolte nello sviluppo e diffusione alle tecnologie necessarie per gli obiettivi di decarbonizzazione”. In questa intervista a due voci, abbiamo chiesto a due autorevoli esperti, il dottor Alberto Claudio Tremolada, Task force coordinator AESC Erma (European Raw Materials Alliance), Competence center manufacturing manager Adaci (Ass. It. Acquisti e Supply M.) e il prof. Flavio Tonelli, Professore Ordinario Università di Genova e Vice Presidente Cluster Fabbrica intelligente, di fare il punto al riguardo. Allargando successivamente l’analisi ai grandi temi dell’economia circolare, della transizione ecologica, dell’energia e del nucleare, che investono anche il settore del professional cleaning, al pari di tutti gli altri. 

Torniamo ad affrontare un tema al contempo grave e di straordinaria attualità: quello delle materie prime critiche: si tratta di una chimera per l’Europa sia a breve che sul lungo periodo?

“Purtroppo – risponde Tremolada – per decenni si sono ignorate le criticità conosciute di approvvigionamento da oligopolio di Paesi quali Australia, Brasile, Canada, Cile, Cina, Congo, India, Indonesia, Myanmar, Perù, Russia, Turchia, Stati Uniti, preferendo concentrarsi sulla produzione, l’importante era avere disponibilità di materie prime critiche a basso costo. Il Covid e la guerra Russia – Ucraina hanno scoperchiato il ‘vaso di Pandora’, ovvero le complesse problematiche che la dipendenza comporta quali: prezzi esplosi, guerre commerciali fra Paesi e società utilizzatrici, shortage, utilizzo – come martello politico – da parte dei Paesi detentori delle risorse e molto altro. Con la transizione energetica e la mobilità elettrica, che porterà all’esplosione dei consumi di materie prime critiche dalle quattro alle dieci volte, le criticità non faranno che acuirsi. A mio avviso è un’autentica chimera pensare un’Europa indipendente per sotto-capacità estrattiva (mining); siamo infatti in presenza di progetti partiti solo di recente per i secondary materials (recycling), che necessitano di decine di miliardi di euro e anni dalla prospezione geologica per essere a regime. Ma uno dei motivi principali è il grade (qualità materiale) rispetto alla quantità estratta e riciclata, che potrebbe far risultare anti-economica l’attività estrattiva o di riciclo. Inoltre c’è da considerare che non tutte le materie prime critiche sono riciclabili all’infinito (acciaio e alluminio lo sono), per motivi di decadimento caratteristico dei materiali dovuto alla ri-trasformazione che non li rende più idonei al riutilizzo per le applicazioni a cui sono destinati.” Tonelli aggiunge: “Da diversi lustri, inoltre, si stanno sviluppando tecnologie per la de-produzione o de-manifattura dei prodotti a fine vita, grazie a processi di demanifattura inversa. È un approccio industriale che, peraltro, beneficia delle competenze distintive dell’Italia nella produzione di macchinari che non solo ‘producono’, ma possono ‘deprodurre’. Vi è, in sostanza, una utilità nel breve e medio termine per Italia ed Europa perché, pur non risolvendo il problema, l’adozione di tali processi tecnologici permetterebbe di mitigare gli effetti avversi della dipendenza geopolitica e strategica sopracitata. Consentirebbe inoltre di creare nuovi posti di lavoro e competenze. Sul medio-lungo termine l’Italia si potrebbe posizionare quale fornitore di competenze e tecnologie in questo ambito, che prima o dopo diverrà necessario e vincolato anche per altri paesi. Servono investimenti importanti. Ci saremmo aspettati di vedere risorse PNRR su di un progetto/investimento strategico di questo tipo.”

È possibile avere qualche dato al riguardo per un’analisi il più oggettiva possibile della situazione?

“I dati e le informazioni – afferma Tremolada – sono noti, in alcuni casi divergenti e necessitano comunque di un’attenta lettura e analisi; per non far perdere i lettori nella consultazione di molte fonti (alcune mie dirette che non posso citare), suggerisco di concentrarsi sul costruire una ‘control tower’ che comprenda sotto la voce forecast e analisi scenari preventivi i dati significativi raccolti per il proprio settore di appartenenza. Anche se indirettamente, essendo tutti parte di un ecosistema possiamo subire gli impatti che colpiscono altri settori. È bene tenere pronto un contingency plan per minimizzare o anticipare eventuali altri cigni grigi o neri che potrebbero manifestarsi. Basti pensare solo al Cile, regione ad alto rischio sismico, o a Paesi dell’Africa, nel caso di colpi di Stato.”

“Le informazioni oggettive – precisa Tonelli – esistono e sono contenute in diversi rapporti tecnici, anche della Commissione Europea. Tuttavia, i media e gli orientamenti governativi tendono sistematicamente ad escludere alcune di queste certezze, a favore di altre. Non è un tema di veridicità in sé, ma di polarizzazione verso alcune evidenze a giustificazione di politiche spesso sovranazionali. Gli operatori di filiera e di contesti industriali a rischio dovrebbero organizzarsi per avere una lettura il più possibile indipendente da tali orientamenti e polarizzazioni.”

Col passare del tempo e degli anni c’è il rischio che il “vecchio Continente” possa finire in un vicolo cieco?

“Sicuramente no – afferma convinto Tremolada – perché l’Europa e i singoli Paesi che vi appartengono si sono mossi per realizzare accordi in giro per il mondo, finalizzati all’acquisizione delle materie prime critiche, per esempio Cile e UE o Francia – Germania con Australia. Paesi come Cina e Russia, in questi decenni non sono certo stati fermi, anzi si sono si sono mossi in Africa e Sudamerica, stringendo accordi di mutuo scambio per ottenere concessioni o partecipazioni in società minerarie, acquisendo così una posizione di predominio difficilmente scalzabile. Basti pensare ai debiti che i Paesi Africani hanno contratto con la Cina, creando di fatto una sorta di ‘dipendenza politica’ nelle scelte di chi favorire per lo sfruttamento delle risorse. I settori industriali strategici europei hanno sempre mantenuto una posizione prudente rispetto a polarizzazioni rischiose. Il costo della stessa è, tuttavia, elevato e senza un adeguato supporto politico e geostrategico il nostro sistema competitivo industriale ne uscirà necessariamente ridimensionato rispetto alle dinamiche globali.”

In particolare, quali potrebbero essere le ripercussioni per i produttori italiani, specie del nostro settore – quello delle tecnologie per l’igiene – già pesantemente penalizzati?

“Le principali ripercussioni, laddove non analizzati rischi e opportunità – precisa Tonelli – riguarderanno la possibilità di continuare a produrre in modo competitivo. Poiché la nostra capacità tecnologica è ancora – su alcuni settori – più elevata che in altri Paesi, la competizione si sposterà sui fattori produttivi. Non avere più accesso a materie prime e semilavorati a prezzo competitivo avrà come effetto quello di non riuscire più a competere.”

“Piuttosto che pensare a quali potrebbero essere le ripercussioni per i produttori italiani – gli fa eco Tremolada – suggerirei loro di concentrarsi su come minimizzare o eliminare l’utilizzo delle materie prime critiche da essi impiegate. Per esempio, sostituendo materiali utilizzati più a rischio di approvvigionamento con altri, meno nobili ma più facilmente reperibili. Un esempio: Daikin per le terre rare nei motori a magneti dei climatizzatori, per costi e rischi di approvvigionamento ha dichiarato che li eliminerà su una produzione di circa sei milioni di motori anno. Sono molti gli esempi, anche miei diretti, che potrei fare, e in tal senso sono disponibile con i suoi lettori per eventuali approfondimenti.”

Preso realisticamente atto di queste difficoltà e dei tempi strettissimi a nostra disposizione, è ancora possibile correre ai ripari? Come sta operando, in concreto, l’UE e come dovrebbe agire?

“Abbandonando approcci ideologici che contrastano con i dati disponibili – spiega Tonelli – perché spesso essi vengono elaborati dalle commissioni tecniche della stessa Commissione. Oltre a questo, dovremmo razionalizzare il dato che, pur potendo essere un esempio, non abbiamo ‘i numeri’ per costringere il mondo a seguire il nostro ‘percorso’ per quanto virtuoso ci possa sembrare.”

Finora, secondo voi, c’è stata adeguata attenzione o indifferenza per le tematiche al centro della vostra attenzione, da parte delle Istituzioni e dell’opinione pubblica italiana?

“Mi spiace – interviene Tonelli – aver verificato che ci sia troppa narrazione e poca realtà in quello che leggo e sento. Esiste poi un problema di continuità politica e di gestione di tali problematiche, le quali non sono né di destra né di sinistra, ma riguardano piani strategici pluriennali che potrebbero anche andare a beneficio della parte politica opposta. In quanto effetti di medio-lungo termine, sono poco interessanti per la politica del ‘consenso’ e anche per la politica della ‘trimestrale’ di alcuni gruppi industriali. Su tempi e modalità differenti le problematiche sono le stesse.”

Quando ho cercato di sensibilizzare ed invitato a fare sistema istituzioni private e pubbliche – specifica Tremolada – le risposte sono state fra il freddo e il disinteressato, perché non era argomento di loro interesse o per fare ‘audience’. Ma le persone non vivono e le aziende non crescono con i claim. Necessitano di assicurazioni che potere di acquisto e valore creato e risparmiato, non si riduca per scelte non adeguate a un mondo complesso – liquido e in continuo cambiamento. Mi spiace verificare che quando io ed altri si avvertivano dei rischi, in tempi non sospetti, questi ultimi, purtroppo, si sono poi palesati. In realtà, non ci limitavamo solo ad avvertire dei rischi: ci si metteva a disposizione per individuare soluzioni pratiche, che allora sarebbero state meno onerose come risorse e tempi richiesti. La speranza che tutto torni come prima è morta, non si può più aspettare. I Paesi ‘outside Europe’ corrono e di certo non ci aspettano.”

Che fare, allora, per limitare gli impatti sulle supply chain di costo?

“Ecodesign e Industrial Sustainability – sottolinea Tonelli – sono approcci noti da almeno due decenni. Essi hanno permesso di sviluppare contesti regolatori come quello Europeo ‘cradle to cradle’, redesign prodotti – processi, eliminare muda e attività che non producono valore (Toyota way). Inoltre consentono spesso risparmi a doppia cifra percentuale, senza stressare le supply chain. Tuttavia, molti settori industriali si stanno ancora chiedendo se tutto ciò sia realtà. Purtroppo, almeno un decennio è stato perso in questioni che altrove erano già state comprese e che venivano affrontate. Bene essere prudenti, ma di fronte ad alcune dinamiche siamo sistematicamente in ritardo e non per mancanza di competenze specifiche.” Tremolada è sicuro: “Credo sia necessario essere predisposti al cambiamento condiviso multilivello (top – center e down) e soprattutto ‘cultura’, tramite la formazione o learning by doing, ovvero imparando facendo. Difficile? No, potrei portare molti esempi di successo non solo dei vantaggi ottenuti e non solo in termini di costo.”

Maurizio Pedrini

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