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Prevenire le contaminazioni, cosa dice la legge

L’ambiente di produzione deve essere progettato e costruito in modo da limitare le contaminazioni ambientali. Norme cogenti e volontarie danno indicazioni in tal senso

Nella prevenzione delle contaminazioni anche l’ambiente gioca un ruolo cruciale, dove per ambiente si intendono le infrastrutture installate, gli impianti, i muri, l’aria… Tutti questi elementi rientrano nell’ambito dei prerequisiti, definiti come condizioni ambientali e operative di base di un’azienda alimentare, necessarie per produrre alimenti sicuri. Il programma di prerequisiti, invece, contiene prassi e condizioni di prevenzione che includono tutte le corrette prassi igieniche, oltre che procedure quali la formazione del personale e la rintracciabilità. 

Tutto inizia con il Regolamento Igiene

I prerequisiti sono disciplinati da diverse norme, cogenti e volontarie, a partire dal Regolamento Igiene, il Reg. CE 852/2004 e s.ml., che in uno degli Allegati riporta alcune indicazioni operative. Infatti precisa che le strutture destinate agli alimenti devono essere tenute pulite, sottoposte a manutenzione e tenute in buone condizioni. Lo schema, la progettazione, la costruzione, l’ubicazione e le dimensioni delle strutture destinate agli alimenti devono essere tali da impedire l’accumulo di sporcizia, il contatto con materiali tossici, la penetrazione di particelle negli alimenti e la formazione di condensa o muffa indesiderabile sulle superfici. “In pratica – precisa Serena Pironi, tecnologa alimentare – introduce il concetto di disegno igienico degli impianti”.

Sempre l’allegato specifica che si deve assicurare una corretta aerazione meccanica o naturale, evitando il flusso meccanico di aria da una zona contaminata verso una zona pulita. I sistemi di aerazione devono essere tali da consentire un accesso agevole ai filtri e alle altre parti che devono essere pulite o sostituite. “Nella mia attività consulenziale – spiega – mi sono resa conto che questo punto talvolta è trascurato. La sovrapressione tra un ambiente e l’altro non viene considerata e non si conoscono i flussi di aria. In un caso mi sono resa conto che un problema di contaminazione da muffe derivava proprio da un flusso di aria che dall’esterno arrivava alla zona di confezionamento”.

La 852 parla anche delle caratteristiche che devono avere gli impianti di scarico. “La progettazione di scarichi e drenaggi – commenta Pironi – è un altro punto debole. Ho lavorato persino con aziende in cui non erano neppure presenti e abbiamo dovuto impostare le procedure di sanificazione a secco”.  Le infrastrutture non devono favorire l’insorgere di contaminazione. Pavimenti, pareti e soffitti devono essere mantenuti in buone condizioni, essere facili da pulire e sanificare. Devono essere costruiti o rivestiti in materiale resistente, lavabile e non tossico. 

Le finestre e le altre aperture devono essere realizzate in modo da impedire l’accumulo di sporcizia e quelle che possono essere aperte verso l’esterno devono essere dotate di barriere anti insetto. Le porte devono avere superfici facili da pulire; le superfici nelle zone di manipolazione degli alimenti devono essere mantenute in buone condizioni ed essere facili da sanificare. Si richiedono materiali lisci, lavabili, resistenti alla corrosione e non tossici.

Cosa dicono le Linee Guida

“Un esempio di programma di prerequisiti – spiega Serena Pironi – è contenuto nella Linea Guida UE, che mette in correlazione il Codex Alimentarius con le norme ISO. Uno dei punti a cui fa riferimento è il lay-out degli edifici. Molte aziende nascono con un lay-out ben strutturato, ma nel tempo vengono ampliate e lo stravolgono, rendendo più difficile gestire gli incroci dei flussi di produzione. Un altro aspetto interessante sottolineato dalla Linea Guida sono le utilities, per esempio l’acqua, che può diventare ghiaccio o vapore ed entrare nei processi, oppure i gas come quelli per i tunnel di surgelazione o per l’atmosfera modificata”. 

La Linea Guida precisa che in sede di valutazione dei rischi connessi all’ubicazione dello stabilimento andrebbe tenuto conto della prossimità di potenziali fonti di contaminazione, dell’approvvigionamento idrico, del trattamento delle acque reflue, della fornitura di elettricità, dell’accesso ai trasporti, del clima, di possibili inondazioni… Inoltre la configurazione degli stabilimenti dovrebbe prevedere una rigorosa separazione tra zone contaminate e zone pulite, tra aree ad alto rischio con prodotto esposto e aree a basso rischio. I locali dovrebbero essere disposti in modo da garantire un flusso di produzione unidirezionale (la cosiddetta “marcia in avanti”) e i locali refrigerati o gli impianti di riscaldamento dovrebbero essere isolati.

Un altro aspetto preso in considerazione sono i magazzini. Dovrebbero essere disponibili locali chiaramente definiti per le materie prime, recipienti per alimenti e i materiali da imballaggio. “Ancora oggi – racconta Pironi – trovo magazzini non separati. Se ci sono aree comuni, andrebbero comunque creati degli spazi separati per materie prime, imballaggi, prodotto finito”. Secondo la Linea Guida andrebbe prestata attenzione alle diverse modalità con cui le attrezzature possono provocare contaminazioni. Bisogna prevenire, per esempio, il gocciolamento della condensa dai soffitti, l’accumulo di residui di alimenti nei dispositivi per l’affettatura. Devono essere utilizzate attrezzature separate per prodotti crudi e cotti. 

Rimanendo in ambito comunitario, anche EFSA – Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare – si occupa di prerequisiti. “Lo ha fatto – sottolinea Pironi – in una linea guida emanata nel 2020 che si occupa di come attribuire la shelf life di un prodotto alimentare. EFSA sottolinea come alcuni microrganismi alterativi o patogeni possono provenire dall’ambiente e che le condizioni ambientali igieniche durante la produzione sono una causa o un fattore di rischio per la contaminazione incrociata”. EFSA suggerisce di prestare attenzione alla progettazione igienica delle superfici, delle attrezzature e degli utensili a contatto con gli alimenti e alla suddivisione in zone degli impianti di lavorazione. “Anche le saldature – precisa la tecnologa – devono essere igieniche e quindi devono essere realizzate in modo che non possano scheggiarsi onde evitare di contaminare esse stesse gli alimenti”. 

Oltre ai flussi di materiali e di processo, EFSA invita anche a prestare attenzione ai flussi dell’aria e dell’acqua.

Richieste stringenti dagli standard volontari

Fin qui siamo in ambito cogente, ma anche gli standard di certificazione volontari GFSI (IFS e BRCGS) sono oggi molto dettagliati sui prerequisiti. I concetti introdotti sono gli stessi di quelli presi in esame dalle norme comunitarie, ma gli standard puntualizzano alcuni dettagli operativi che è necessario rispettare per ottenere la certificazione. Lo standard IFS, per esempio, richiede che vengano svolte indagini per rilevare in quale misura l’ambiente circostante allo stabilimento possa avere un impatto negativo sulla sicurezza alimentare e sulla qualità del prodotto. Nel caso si stabilisca che la sicurezza o la qualità del prodotto possano essere compromesse, devono essere implementate adeguate misure di controllo, che devono essere periodicamente riesaminate.

Richiede anche che sia disponibile una mappa del sito produttivo che includa tutti gli edifici e descriva chiaramente i flussi del processo “Questa mappa – afferma Pironi – è un buon metodo per gestire i flussi correttamente. Riportando tutti i flussi in un unico documento è facile verificare se tutto il processo procede a marcia avanti o se ci sono incroci e in questo caso aiuta a gestirli”. Secondo lo standard, infatti, il flusso di lavorazione, dal ricevimento delle merci alla spedizione, deve essere stabilito, riesaminato e, se necessario, modificato al fine di garantire che i rischi di contaminazione microbiologica, chimica e fisica delle materie prime, del materiale di confezionamento, dei prodotti semilavorati e dei prodotti finiti sia evitato. Le aree giudicate sensibili dalla valutazione del rischio progettate e gestite in modo da garantire che la sicurezza del prodotto non sia compromessa.

“Queste indicazioni, che potrebbero sembrare ovvie – sostiene Pironi – sono invece tutt’altro che scontate nella pratica, perché spesso si occupano della progettazione dei siti produttivi figure professionali, come gli architetti, che nulla sanno di igiene degli alimenti e che quindi non tengono conto delle necessità specifiche del settore. Secondo la norma IFS i locali in cui vengono preparati, trattati, lavorati e conservati i prodotti alimentari devono essere progettati e costruiti in modo tale da garantire la sicurezza alimentare. In particolare, le pareti devono prevenire l’accumulo di sporco, i pavimenti devono essere in buone condizioni e facili da pulire e deve essere garantito lo smaltimento igienico delle acque reflue. Le installazioni sospese (tubature, canaline elettriche, lampade…) devono essere costruiti in modo da ridurre al minimo l’accumulo di sporco e condensa. In caso di controsoffitti, è necessario un accesso all’area vuota sovrastante per facilitare la pulizia, la manutenzione e le ispezioni per il controllo degli infestanti”.

Un altro aspetto preso in esame è la ventilazione: i filtri e gli altri componenti devono essere facilmente accessibili, controllati, puliti o sostituiti se necessario. “Lo standard IFS – prosegue Pironi – prevede anche un piano di monitoraggio periodico di tutte le attività previste dalla certificazione. Anche i parametri di monitoraggio ambientale devono essere periodicamente verificati. È quindi necessario individuare le superfici da mantenere controllate e i parametri da determinare. La scelta di cosa monitorare è frutto di un’analisi del rischio”. 

Anche lo standard BRCGS contempla che vengano rispettati requisiti simili all’IFS, ma è più preciso su alcuni punti. Per esempio, a proposito della planimetria della struttura, precisare che devono essere mappati oltre ai percorsi di materie prime e prodotti finiti, anche i flussi delle persone, degli imballaggi e dei rifiuti. Introduce inoltre un sistema di classificazione del rischio delle aree dello stabilimento. Le aree ad alto rischio sono quelle destinate trattamento dei prodotti esposti particolarmente sensibili, come refrigerati e congelati. Seguono, a livello di rischio decrescente, le aree ad alto controllo per i prodotti a temperatura controllata; le aree ad alto controllo per le referenze a temperatura ambiente e quelle a basso rischio. Ci sono poi le aree più semplici perché destinate a prodotti confezionati, depositi e magazzini e per finire quelle non destinate al trattamento prodotti, come uffici o spogliatoi. “Dove si individua una zona ad alto rischio o ad alto controllo – precisa Pironi – ai fini della certificazione deve essere prevista una segregazione fisica e una compartimentazione aree”.

Ci sono altre differenze rispetto allo standard IFS. Per esempio, nei controsoffitti devono essere collocate delle trappole per le infestanti; i camminamenti sopra le linee devono prevenire cross contaminazione, devono essere facili da pulire e manutenere; scale, piani rialzati, gradini devono essere realizzati con disegno igienico e devono essere puliti e monitorati oltre che manutenuti. BRCGS precisa anche le procedure da seguire per macchine e attrezzature nuove o rimaste non in uso per molto tempo. Si occupa anche dei muletti, che devono subire una procedura di ripristino igienica se transitano da aree a basso rischio verso quelle a rischio superiore, e persino delle loro batterie, che devono essere chiuse per non provocare contaminazioni. “Anche BRCGS – sottolinea Pironi – prevede un monitoraggio ambientale, basato sulla valutazione dei rischi (piano campionamento, posizione campioni, frequenza, organismi bersaglio, metodo di analisi, valutazione controlli) con limiti adeguati e azioni correttive”. 

Come eseguire la valutazione del rischio

Né lo standard BRCGS, né IFS, però, danno delle indicazioni precise su come impostare la valutazione del rischio. In questo viene in soccorso alle aziende la certificazione FSSC2200, che nell’ottobre 2022 ha emanato delle linee guida su come deve essere eseguito il monitoraggio ambientale. Il primo step è definire il team che se ne occupa e chi è il leader. Poi viene l’analisi del rischio, per cui la certificazione suggerisce di tenere in considerazione diversi aspetti: 

  • microrganismi, pericoli specifici del prodotto o che potrebbero provenire da materie prime, ambiente…
  • le aree o le zone in funzione dei differenti pericoli
  • le tecniche di monitoraggio (tamponi, analisi acqua, piastre aria, tamponi ATP…)
  • la corretta frequenza di monitoraggio
  • il metodo di campionamento, il suo stoccaggio e trasporto per analisi
  • i limiti oltre i quali definire azioni correttive 
  • il trend dei risultati ottenuti

Deve seguire una verifica e l’aggiornamento, la redazione della relativa documentazione e la formazione del personale. Queste linee guida forniscono anche un elenco, seppure non esaustivo, dei microrganismi da tenere in considerazione. Tra i patogeni suggerisce salmonella, listeria in ambienti umidi, staphyloccus aureus dove c’è manipolazione da parte degli operatori, bacillus cereus in caso di prodotti secchi e campylobacter jejuini in caso di pollame. Tra gli alterativi: lieviti e muffe da aria e superfici; tra gli indicatori di igiene: coliformi, entererobatteriacee ed escherichia coli.

“Non è obbligatorio monitorare tutti questi parametri – sottolinea Pironi – ma bisogna scegliere cosa tenere controllato in funzione dei propri processi, prodotti e condizioni ambientali”.

Anche queste linee guida parlano di 4 zone diverse in funzione del rischio. Nella Zona 1 rientrano le superfici a diretto contatto (parti interne di tubi o tank, utensili, superfici…). Nella Zona 2 ci sono le superfici non a diretto contatto ma nelle vicinanze, per esempio pavimenti, controsoffitti muri, unità di condensazione delle celle refrigerate. La Zona 3 comprende le aree più remote, in cui è più improbabile una contaminazione, le aree in sovrapressione, i filtri per l’aria, compressori…. Infine la Zona 4 comprende le aree esterne alla produzione o i magazzini dove è stoccato il prodotto chiuso. “Per una corretta analisi rischio – sottolinea Pironi – bisogna valutare reparto per reparto le zone 1 e 2, capire le probabilità che si verifichino delle contaminazioni e decidere la frequenza del campionamento”.

Elena Consonni

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