Lavorare sempre, per sempre, ma perché? E per chi?
La questione non è decidere cosa sia giusto o sbagliato ma capire che se cambia la domanda, l’offerta si deve adeguare. Bisogna che le regole cambino e che cambi anche la visione di tutti noi
Sono anche stanco di essere catalogato insieme al resto del mondo con acronimi e definizioni: Silent generation, Baby boomers, Generazione X, Millennials (Y), Generazione Z (Zoomers), ovvero la generazione digitale, generazione C (ovvero del comportamento connesso), chiamata anche da alcuni generazione Alpha. Dal mio punto di vista siamo tutti parte di una grande pentola che ribolle, dentro la quale ci sono stili di comportamento, relazioni, strumenti di comunicazione, visione del mondo a breve o lungo termine, denaro, senso della vita, valori morali. Lascio ai sociologi molto più adatti di me il compito di trattare i grandi temi inseriti nella pentola, e mi tengo solo l’ultimo, quello dei valori, perché, in questi tempi, mi è sorto qualche dubbio.
A tavola con un amico statunitense si parlava di principi fondativi della Nazione. Io, con orgoglio, ho buttato sul tavolo la carta, per me vincente, del mio articolo 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Volevo snocciolare anche l’art. 4, quello che parla di diritto e dovere al lavoro (NB entrambi), ma ho scoperto che neanche la maggior parte delle persone italiane attorno a me lo conoscono e quindi ho lasciato perdere. Lui, con calma e con un file sorriso, mi recita un passo da cui estrapolo…“Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità…,” 4 luglio 1776 nella sala congressi di Philadelphia, alla presenza di una serie di persone illuminate tra cui Benjamin Franklin. Costituzione USA.
Ho pensato: noi ci abbiamo messo tre anni, dal 25 aprile ‘45 al 1° gennaio ‘48, a mettere d’accordo le tre grandi anime della nostra nazione (democristiani, socialcomunisti, liberal-aristocratici) e la sintesi dell’unione è stato il lavoro. Loro, 170 anni prima l’accordo lo avevano trovato sulla felicità: per carità avevano scritto anche vita e libertà. Vero è che più tardi si sono massacrati fra di loro per un po’ di anni sulla questione razziale, schiavitù etc. e non so bene se hanno risolto la diatriba. Ma il mio pensiero non è sulla questione politica ma sul dna che caratterizzava me e il mio amico al tavolino: cioè io devo lavorare e tu devi essere felice?
Intanto oggi il conto lo paghi tu. E poi dobbiamo parlare. È come se mi si fosse aperta una cateratta, da cui un’onda anomala ha pervaso i miei scenari in tema di lavoro: capisco i giovani e anche i non più giovani che mi hanno detto che si sono licenziati da un’azienda perché non volevano fare gli schiavi. Cioè? Lavorare 8 ore al giorno 5 giorni alla settimana per 235 giorni all’anno è una schiavitù. Quindi mi sono licenziato perché oltre a lavorare voglio anche vivere. Poi ho chiesto al mio amico Usa come va con il workaholism, cioè la tendenza a lavorare eccessivamente in modo compulsivo. O come va a disoccupati o con la sanità e i contributi pagati dai lavoratori, i pensionati che a 75 anni fanno i benzinai, ecc.…. a questo punto ci siamo incartati e abbiamo bevuto il vino rimanente. Tutto e il contrario di tutto. La famiglia, i viaggi, il tempo libero (da cosa? Se non lavori) gli amici, lo studio, la salute, l’arte, la politica, la bellezza, lo sport. Tutto importante, molto importante. Chi paga?
Di solito si paga utilizzando i soldi che una persona prende andando a lavorare. Ma se lavorare è una schiavitù come si fa? Paga qualcun altro: famiglia, nonni, amici, boh. Magari ci si indebita. Ecco un altro bel problema. Ho continuato a pensare quanti dei miei conoscenti amano il loro lavoro, il loro luogo di lavoro. Ho pensato che il lavoro è anche una questione di cultura, anche religiosa. Basta chiedere alla tradizione giudaico-cristiana, a quella protestante, a quella islamica o buddista, ecc. per capire che in questo siamo diversi in tema di lavoro.
E poi ho pensato che contano molto le persone che hai vicino: maestri, genitori, amici, insegnanti, esempi e testimoni. Quindi conta la nostra storia, il tempo ed il luogo dove viviamo. Una volta in Italia il sogno di molti era esattamente quello: avere un lavoro per 8x35x235. Circa 7,6 anni effettivi della propria vita. Base 81 anni di vita per i maschi e 85 per le femmine: ne resta di tempo per fare il resto. Piacere, passione, realizzazione del sé, identità, ruolo all’interno di una comunità. Quello ti permetteva di provare ad essere libero, se i diritti venivano rispettati. So bene che i numeri possono essere diversi ma il principio non cambia. Poi se a qualcuno si chiede “per chi lavori?” la risposta potrebbe essere: per me stesso, per la mia famiglia, per un padrone o datore di lavoro o imprenditore (cambia molto usare le parole giuste), per un manager, per non si sa chi, perché non si vede mai la faccia, per lo Stato (e ancora non si sa chi sia). È diverso.
Questo sono valori che probabilmente non hanno più spazio, tempo e sono trasversali alle generazioni X,Y, Z … questo è motivo di conflitto generazionale. Per tutti noi. Speculazione finanziaria, visibilità personale sui social, scommesse di ogni tipo, sfruttamento di ogni risorsa, e via dicendo vengono intesi come lavori (taluni nuovi) che non hanno bisogno di collocazione temporale: nella storia qualcuno li ha sempre fatti. È quella che Jonas (2002) ha definito etica della responsabilità. E ognuno fa i conti con sé stesso. La questione non è decidere cosa è giusto o sbagliato ma capire che se cambia la domanda, l’offerta si deve adeguare. Quindi se il mondo del lavoro non vuole più 8x35x235 nello stesso luogo per lo stesso datore di lavoro, bisogna che le regole cambino e che cambi anche la visione di tutti noi. Vuol dire cambiare. Difficile. Allora ho pensato che ha senso considerare che PIL (indice della ricchezza prodotta col lavoro) e FIL (Felicità interna lorda) sono ancora in contrapposizione perché siamo legati a modelli che pongono tutta la loro resistenza al cambiamento in quanto profondamente radicati nella società. Ma anche possiamo sperare, solo per il fatto che ne parliamo e scriviamo, che prossimamente qualcosa cambierà.
Franco Cesaro
Bibliositofilmografia
Hans Jonas Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, curato da P. P. Portinaro, Biblioteca Einaudi 2002
https://argoserv.it/generazione-x-y-z-c/
https://www.geopop.it/generazioni-oggi-quali-e-quante-sono-spiegazione