Sanificazione nel fuori casa: i consigli dell’esperta
All’interno di un’attività di ristorazione, piccola o grande che sia, la sanificazione è tutt’altro che un processo banale
di Elena Consonni
Ad accomunare i ristoranti stellati con gli all you can eat, le caffetterie con i locali notturni, c’è l’obbligo di garantire che gli alimenti serviti siano salubri e sicuri. Questo obiettivo si raggiunge anche attraverso l’applicazione delle procedure corrette di sanificazione. Per capire meglio come questa operazione debba essere svolta, quali sono le criticità tipiche del mondo del fuori casa e quali gli errori che vengono commessi più frequentemente in questo ambito, abbiamo interpellato Serena Pironi, tecnologa alimentare, che nella sua attività di consulente ha avuto modo di toccare con mano come la sanificazione venga gestita nel fuori casa.
Può spiegarci quali sono gli aspetti più critici nella sanificazione per una attività di ristorazione?
“A mio avviso la scelta dei prodotti. Non c’è ancora conoscenza e consapevolezza della differenza tra un detergente e disinfettante. A titolo di esempio trovo ancora chi usa la candeggina ovunque: ma la candeggina non deterge e ha un forte odore, pertanto non è idonea a essere utilizzata nelle cucine. Spesso i commerciali che lavorano per le aziende di sanificazione non sono “informatori” e non conoscono nemmeno loro bene i prodotti in vendita, propinando mille prodotti millantando che sono “HACCP”. ll tecnico del settore sa che non esistono prodotti “HACCP”, ma molti operatori della ristorazione no. Così come ancora vengono consigliati disinfettanti prodotti privi del PMC (presidio medico chirurgico), nonostante una nota del 2019 del Ministero della Salute abbia chiarito questo aspetto.”
In base a quali parametri devono essere stabilite le frequenze delle operazioni di detergenza e di sanificazione?
“Bisogna innanzitutto capire quanto lavora l’attività, quanto vengono usate le attrezzature e le superfici e con quale sporco verranno a contatto. In cucina i piani di lavoro vengono usati tutti i giorni, quindi devono essere sanificati quotidianamente. Un tavolo dove metterò sempre e solo pentole sarà sanificato con un prodotto più neutro, un tavolo dove metterò a contatto gli alimenti dovrà essere sanificato con un prodotto maggiormente alcalino. Un forno, che non viene usato tutti i giorni e che utilizza il calore, che comporta una disinfezione, richiede di essere deterso con minor frequenza in funzione del reale utilizzo. Lo stesso vale per la cappa. Ma occorre pensare che se su una superficie o con una attrezzatura preparo due categorie merceologiche differenti durante il lavoro o passo da crudo a cotto, occorre implementare una sanificazione per prevenire l’eventuale cross contamination. In sostanza si valuta l’inquinamento microbico che potrebbe esserci e si stabiliscono metodologie e frequenze di sanificazione idonee.”
Sala e cucina richiedono accortezze diverse?
Assolutamente sì. Bisogna fare un distinguo a livello di tipologia di sporco presente. In sala abbiamo polvere, sporco organico che viene dall’esterno (si pensi alle suole delle scarpe dei clienti), più infestanti volanti (a causa delle porte che si aprono continuamente) e i microrganismi legati all’uomo attraverso principalmente le mani, il respiro e la saliva. Si crea comunque un ambiente da sanificare, ma è ridotto l’inquinamento microbico di origine alimentare. Ovvio che in sala si eseguono pulizie ambientali, oltre che dei tavoli e delle stoviglie. Queste ultime non sono da sottovalutare: bicchieri lavati male possono essere causa di trasmissione di virus, si pensi alla comune herpes labiale. Si possono usare però prodotti a pH più neutro e disinfettanti anche a base alcolica. In cucina invece gli alimenti che vengono manipolati sono diversi, i prodotti crudi hanno più microrganismi di quelli cotti: si pensi al pesce in attesa di essere cotto e una volta che è cotto, oppure alla differenza microbiologica che ci potrebbe essere tra un formaggio cremoso e un pane. E gli stessi alimentaristi con i loro comportamenti possono veicolare microrganismi. La cucina, dunque, è più ‘sporca’ e deve essere sottoposta ad una più approfondita sanificazione con prodotti corretti (detergenti più alcalini, disinfettanti non solo a base alcolica, ma in grado di colpire patogeni più resistenti).”
Secondo lei, quali caratteristiche di un prodotto sanificante deve valutare il gestore di un locale di ristorazione? Quali indicazioni non devono mancare nella scheda tecnica di un prodotto?
“Per poter valutare un detergente, occorre che vengano controllati i principi attivi presenti. Devono esserci tensioattivi non ionici o cationici e il prodotto deve avere un pH alcalino o, nel caso di sporco ostinato/bruciato, molto alcalino. La presenza di profumo non va bene. Il detergente migliore è quello che fa poca schiuma (a meno che sia di natura schiumogeno) e si sciacqua bene. Se nel locale abbiamo un’acqua dura, è bene che siano presenti sequestranti (tipo l’EDTA). Il disinfettante deve riportare la frase ministeriale del presidio medico chirurgico ovvero “N° registrazione al Ministero della Sanità (es. n. /…./00…./AUT)”. Nella scheda tecnica devono essere presenti i microrganismi bersaglio. Anche in questo caso la presenza di profumo non va bene. Il principio attivo cloroattivo potrebbe non andare bene su alcune superfici, in quanto potrebbe danneggiarle (es. alluminio, acciaio). In entrambi i casi in scheda tecnica deve essere menzionata l’idoneità d’uso nell’alimentare, le dosi di impiego e i tempi di contatto necessari. Anche quando viene esplicitata la non risciacquabilità, va valutata la tipologia di superficie d’impiego. Per quel che mi riguarda consiglio sempre di risciacquare, al fine di non permettere la possibilità che il principio attivo vada a finire sul futuro alimento posto su quella superficie. Uno sguardo ai prodotti a basso impatto ambientale sarebbe auspicabile.”
La pulizia delle attrezzature (affettatrici, macchine per il ghiaccio, macchinetta per il caffè…) richiede procedure particolari?
“Le parti smontabili devono essere tolte e lavate o in lavastoviglie (se i materiali lo permettono ed è preferibile) oppure con lavaggio a mano. Le parti della struttura fisse vanno pulite manualmente. L’attenzione particolare va posta dove ci sono le zone toccate frequentemente dalle mani (che provocano cross contamination) e che sono a contatto con gli alimenti. Ad esempio l’affettatrice deve essere sanificata (cioè detersa e disinfettata) bene nel manico usato dalle mani dell’operatore e nella lama di taglio. Ovviamente anche la struttura va pulita, ma le parti più delicate sono quelle menzionate.”
Cosa può suggerire per congelatori, frigoriferi e in generale gli ambienti di stoccaggio?
Il consiglio principale è quello di prevedere una sanificazione differenziata tra interno, esterno e maniglia, per quel che concerne frigoriferi e freezer, infrastruttura (pavimenti, pareti) e scaffalature per quel che riguarda gli ambienti di stoccaggio. L’interno delle strutture di refrigerazione si sporca con maggior facilità ed occorre impiegare detergenti neutri privi di odore, altrimenti provocherebbero odori sgradevoli e potrebbero aggredire i materiali. Quindi si potrebbe stabilire una frequenza più assidua (ad esempio settimanale). La maniglia esterna andrebbe sanificata ogni giorno. Il top e le parti più esterne magari a settimane alternate. I freezer devono essere sbrinati per la pulizia interna e i microbi ‘dormono’ alle temperature di congelamento. Pertanto, la frequenza di pulizia della parte interna potrebbe essere fatta mensilmente. I depositi e le aree di stoccaggio se vedono al loro interno solo prodotti chiusi, devono prevedere delle frequenze di spazzatura, deragnatura e di spolvero delle scansie. Le frequenze dipendono dalla tipologia, dall’ubicazione all’interno del locale e dagli alimenti contenuti. Per fare un esempio, si potrebbero fissare frequenza giornaliere o settimanali per la spazzatura.”
Quali sono gli errori che ha visto compiere più spesso nella sua attività di consulente?
“La non conoscenza dei prodotti in uso: molti si fidano del venditore e magari usano tanti prodotti concettualmente tutti uguali (ad esempio solo detergenti e non disinfettanti o viceversa). La poca consapevolezza delle zone su cui occorrerebbe maggiormente insistere (ad esempio le maniglie). Poca frequenza delle pulizie ambientali (deragnatura, angoli, pozzetti di scarico). Non poi che spesso manca un piano preventivo, oppure, se presente, è troppo generico e poco dettagliato e quindi non è di concreto aiuto all’operatore che deve condurre tali operazioni. Non è noto il concetto delle diluizioni, che troppo spesso vengono effettuate ad occhio e non con strumenti adatti allo scopo. Alcuni continuano a mescolare prodotti, noncuranti delle reazioni chimiche potenzialmente innescabili. In fase di sanificazione è scarso, se non addirittura assente, il tempo di contatto e quello di risciacquo. Spesso mi sono trovata in presenza di contenitori non ben identificati, nati con altri scopi, ma con all’interno il prodotto per la pulizia. Infine segnalo l’uso smodato di candeggina.
Quali problemi può portare una sanificazione condotta male? Chi ne è responsabile: l’operatore o il gestore del locale?
Una sanificazione mal condotta perpetuata nel tempo può provocare contaminazione dirette o crociate importanti. La presenza di Listeria monocytogenes (patogeno di origine ambientale, in grado di effettuare pure biofilm), ad esempio, in un prodotto ready to eat (ovvero pronto al consumo come una insalata fredda di pasta o un tramezzino) o in un prodotto mal cotto (che non ha raggiunto almeno un paio di minuti al cuore, come potrebbe capitare riscaldando un panino con la cotoletta o un hamburger) può provocare aborto in una donna in gravidanza o essere letale in persone immunodepresse. Così come potrebbe essere grave in persone immunodepresse la presenza di altri patogeni, come Salmonella ed E. coli. Oppure si potrebbero provocare gastroenteriti da Stafilococco (collegato all’operatore che adotta comportamenti scorretti) o da Clostridium perfringens.
Il responsabile è l’OSA definito dal Codex come Food Business Operator, ovvero l’operatore del settore alimentare che detiene la responsabilità dell’organizzazione, ha firmato la SCIA e deve assicurare che siano implementate le norme cogenti in materia igienico sanitaria. A meno che sia stata delegata formalmente altra persona, spesso coincide con il titolare dell’impresa, il quale deve dimostrare di aver formato le risorse interne.”
Parliamo a questo punto di formazione. Quanto è importante formare i dipendenti sulle procedure di sanificazione?
“A marzo 2021 è entrata in vigore una modifica importante del Reg. 852/04, cuore della materia igienico sanitaria in ambito europeo, ovvero la Food Safety Culture. La cultura della sicurezza alimentare è il nodo cruciale su cui dovrà e deve agire ogni OSA. La sanificazione, così come gli altri comportamenti igienico sanitari facenti parte dei prerequisiti, devono divenire automatismi e non essere visti come attività in più. Fanno parte del lavoro quotidiano e le persone devono esserne consapevoli e responsabili. Formazione ed altre leve, quali il coinvolgimento attivo, sono i cardini per riuscire in tal senso. Non è solo spiegando i principi e le nozioni che le persone acquisiscono la competenza, ma è la messa in campo consapevole della conoscenza che fa la differenza ed è su questo su cui bisogna puntare nel prossimo futuro.”