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Il rapporto uomo macchina: chi comanda?

Il rapporto fra uomo e artefatto fa parte della storia stessa dell’umanità: i nostri antenati sono sempre riusciti a vivere meglio da quando, poco più che primati, hanno imparato a trasformare la materia per plasmare il mondo, per difendersi, per coltivare la terra, per ripararsi dalle intemperie, per spostarsi

Se devo parlare di rapporto fra uomo e macchina nel mondo del lavoro, diventa difficile per me togliere lo sguardo da quel capolavoro del cinema che è Tempi Moderni: Charlie Chaplin, incastrato negli ingranaggi del mostro a controllo numerico, è un’immagine che rappresenta l’impotenza dell’uomo.

Egli è travolto dai tempi, dai ritmi che non gli appartengono, lui, uomo della terra e della piazza, del negozio e del laboratorio. Un uomo che fatica, ma a modo suo; o secondo i modi e le regole dettate da un altro uomo, ma non da quelli di una macchina. Il rapporto fra uomo e artefatto fa parte della storia stessa dell’umanità: i nostri antenati sono sempre riusciti a vivere meglio da quando, poco più che primati, hanno imparato a trasformare la materia per plasmare il mondo, per difendersi, per coltivare la terra, per ripararsi dalle intemperie, per spostarsi. 

Gli oggetti, sempre più complessi, ci hanno fatto risparmiare fatica o ci hanno permesso di risolvere problemi e sfide che hanno caratterizzato le grandi rivoluzioni, responsabili dello sviluppo e dei grandi cambiamenti, di ricchezza, ma anche di sofferenze, migrazioni, povertà, guerre. Secondo alcuni scienziati (Inghilleri, 2003) gli artefatti possono aiutarci a vivere meglio, anzi, pare siano una delle condizioni necessarie alla cosiddetta Buona Vita: le condizioni sono 1. che servano realmente a qualcosa, 2. che abbiano senso per noi. Siano essi materiali o immateriali.

In relazione al primo punto si può aprire un dibattito infinito sui reali bisogni di ogni persona, soprattutto nel mondo occidentale, e sul ruolo etico del Marketing in questo meccanismo. Non è questa la sede. Sul punto due ci si può soffermare con più serenità pensando agli oggetti che ci rendono felici o che, semplicemente, ci ricordano chi siamo o la nostra storia: basta aprire il cassetto dei ricordi o, per alcuni, il portafoglio con la foto dei nostri cari. Oppure pensiamo alla bellezza, all’arte ed al suo ruolo magico nel farci sentire parte del mondo. Le rivoluzioni industriali, basate sull’utilizzo e lo sfruttamento delle diverse energie, e i cambiamenti sociali conseguenti, sono particolarmente collegate alle intelligenze dell’uomo.

Possiamo prendere atto che, se da un lato non abbiamo ancora imparato a conoscere e ad usare correttamente e completamente le intelligenze domiciliate nel nostro cervello, ci stiamo confrontando in questi tempi con il fenomeno di quella artificiale, comunque creata dall’uomo. In entrambi i casi la chiave del successo, dell’utilità e del controllo sta, a mio parere, nell’autoapprendimento. Ci si dovrebbe concentrare a capire come e in quanto tempo le persone e le macchine apprendono, dotate di una facoltà che è alla base della crescita e della sopravvivenza: la curiosità.

Fin da bambino l’essere umano ha dentro di sé un’incredibile spinta all’esplorazione, alla scoperta, al rapporto con la meraviglia e col nuovo. Questo meccanismo lo abbiamo trasferito nelle macchine che, non avendo la curiosità, devono arricchirsi con quello che incontrano durante la loro vita, i loro incontri, i loro movimenti. In questo periodo di tempo le macchine imparano di più e più velocemente di noi e sono le macchine stesse a rendersi interessanti per noi, inaugurando una stagione che è di per sé una rivoluzione: anziché esplorare il Mondo, passiamo il nostro tempo a scrutare uno schermo. Sempre più spesso piccolo e posizionato in uno spazio più basso dei nostri occhi.

Così facendo non ci si accorge di ciò che succede a fianco a noi e, nel frattempo, sono cambiati tempi e modi degli incontri, il nostro rapporto con la conoscenza, con la bellezza, ecc.

Si perdono di vista e si confondono soluzioni e problemi, mettendo insieme tutto in esperienze che durano un attimo e poi vengono bruciate dallo stimolo successivo. Pensiamo al fenomeno robot: il vero problema, lo sappiamo, è il profondo cambiamento del nostro modo di intendere il lavoro. Si vive la macchina come falsa soluzione al problema della manodopera: costi e reperibilità delle persone. Il cambiamento della cultura del lavoro e il suo significato nella nostra vita, non si risolve solo con un robot, ma anche con un robot che, messo insieme con la conoscenza e la consapevolezza, ci può aiutare a lavorare meglio, senza per forza sostituirci.

Chi si prende in mano la regia di questo processo? Il problema potrebbe essere serio, perché l’intelligenza artificiale non ha anima, né etica. Nel frattempo viviamo un’era col capo chino a digitare messaggi o col capo alto verso il cielo per farci un selfie: quando un popolo vive a testa bassa qualcuno ne approfitta sempre. Inoltre, si guarda la punta del piede e, muovendosi, ci si schianta. Stessa cosa se viviamo con la testa fra le nuvole. Per questo molte persone preferiscono star ferme, imprigionate nel divano.

Rialzare lo sguardo e guardare lontano, dritto davanti a noi, verso il futuro.

Con l’aiuto delle macchine. Con fiducia. Questo è l’augurio.

Franco Cesaro

 

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