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Il pubblico esercizio italiano, un modello vincente

Circa 330mila attività che hanno un forte ruolo sociale e sviluppano vecchi e nuovi business per andare incontro alle mutevoli esigenze dei clienti. Gli esercenti oggi devono padroneggiare aspetti gestionali, contabile-amministrativi, digitali e igienico-sanitari, parte integrante del servizio. Ne parliamo con Lino Enrico Stoppani, presidente di Fipe-Confcommercio

Non c’è categoria professionale che sia stata più colpita dalla pandemia. Per chi lavora nel settore del fuoricasa il covid ha segnato un netto spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. Tra le principali conseguenze, la consapevolezza dell’importanza del proprio ruolo economico e sociale, fondamentale per il benessere delle persone e delle comunità, con l’inderogabile necessità di una costante cura e attenzione per gli aspetti igienico sanitari in tutti gli ambiti dell’attività.
Di questo e di come sta cambiando il settore horeca parliamo con Lino Enrico Stoppani che, dopo aver gestito per anni con la sua famiglia Peck di Milano, ha continuato la sua attività nel settore come Presidente di Fipe-Confcommercio, la federazione italiana dei pubblici esercizi, l’associazione più rappresentativa e firmataria del CCNL più utilizzato nel settore, a cui si dedica con passione e serietà, provando a condividere la sua ultra-decennale esperienza imprenditoriale maturata in un’azienda simbolo dell’eccellenza enogastronomica del nostro Paese. Persona pacata e mai banale, nei suoi ragionamenti è sempre presente lo stimolo per migliorare la categoria che rappresenta.

Partiamo dal quadro generale, qual è lo stato di salute dei pubblici esercizi in Italia?

Stiamo certamente attraversando una fase positiva, soprattutto se confrontata al recente passato penalizzato dall’emergenza sanitaria. Infatti, se guardiamo ai risultati economici, oggi lamentarsi sarebbe non solo sbagliato, ma inutile vittimismo. Stiamo tornando a livelli di fatturato pre-covid, con un forte impulso da parte del turismo che sta portando molti benefici e lavoro per tutti. I diversi settori di cui si compone l’universo dei pubblici esercizi stanno tutti lavorando molto bene.
A livello generale c’è una voglia di uscire da parte delle persone che ha favorito tutto il settore, e questa tendenza è una delle conseguenze delle restrizioni a cui ci ha costretto il covid. Proprio quell’esperienza ha infatti portato ad una riscoperta della voglia di ritrovarsi, di stare insieme dopo il lungo “castigo” imposto dalla pandemia.

Fin qui i dati positivi. Quali sono invece le preoccupazioni e le principali priorità oggi?

Vedo due forti elementi di preoccupazione. Il primo è la redditività delle imprese: oggi è minacciata, anzi è erosa, dal peso dell’inflazione che sta incidendo sul conto economico delle attività. Questa si aggiunge ai costi energetici che, anche se ultimamente diminuiti, restano a un livello molto più alto che in passato. Si è creata una situazione in cui la marginalità per chi lavora è ridotta e, contemporaneamente, il potere di acquisto delle famiglie è diminuito, con la conseguenza di dover ridurre i consumi in termini reali in bar e ristoranti.
C’è un secondo problema che è quello della manodopera, diventata risorsa rara, soprattutto quella qualificata. Si stima che a causa del covid siano usciti dal settore circa 250 mila addetti; oggi all’appello ne mancano ancora 200mila. È il grande paradosso italiano: tassi di disoccupazione, anche giovanile, da primato e mancanza di personale per i pubblici esercizi. È un problema trasversale ai settori e universale, ma il lavoro in Italia pone una triplice questione: politica, culturale e sociale.

In che senso? Ci spieghi meglio questi tre elementi…

Politica perché servirebbero politiche attive del lavoro più incisive, per riqualificare, innovare e rafforzare le competenze, oltre che orientare i ragazzi verso percorsi scolastici che facilitino l’accesso al lavoro. E invece oggi siamo legati ancora fortemente alle politiche passive del lavoro, importanti perché offrono sostegno economico a chi è in difficoltà, ma ci sono solo deboli strumenti per ricollocare le persone che hanno perso il lavoro e per favorire il mercato del lavoro. Un tema anche sociale, perché c’è un problema demografico, di bassa natalità e di invecchiamento della popolazione; dall’altra parte c’è l’immigrazione, tema spesso usato ideologicamente, che invece sarebbe da affrontare con politiche capaci di accogliere, integrare e formare verso il lavoro questa nuova popolazione. Infine, la questione culturale. C’è un cambiamento generale nel modo in cui le persone si rapportano al lavoro. Una volta perderlo era una mortificazione personale, oggi sembra quasi un elemento di gratificazione personale: c’è chi ostenta con orgoglio le proprie dimissioni e il fenomeno delle “grandi dimissioni” ne è la diretta testimonianza. Significa che il lavoro sta perdendo il suo ruolo, non siamo stati capaci di trasferire ai giovani il concetto di lavoro come strumento di miglioramento sociale ed elemento che dà senso e dignità alla persona e alla propria vita.

Se dovesse fornire una fotografia del mondo dei bar e dei ristoranti come la descriverebbe?

È un settore che vede oltre 300mila imprese, più di 1,2 milioni di occupati, un fatturato di circa 90mld di euro, con un valore aggiunto di circa 45mld, che lo rende per i suoi valori economici il primo nella filiera agroalimentare italiana. Un settore che porta poi benefici ad almeno altri due settori strategici per la nostra economia: l’agroalimentare e il turismo.
I pubblici esercizi svolgono oggi un ruolo fondamentale di selezione, valorizzazione e divulgazione delle eccellenze agro-alimentari italiane e il cibo rappresenta il secondo motivo per cui gli stranieri scelgono l’Italia come destinazione delle loro vacanze e il primo per il quale vi ritornano. Per questo servirebbero politiche economiche a tutela del settore. Ci sono, invece, ancora tante mancanze e carenze, come l’assenza di un unico ministero di riferimento, che porta a confrontarsi con diversi interlocutori a seconda dei problemi da gestire; ci sono asimmetrie di regole tra le varie tipologie di attività di somministrazione di cibo e bevande, che producono confusione nel consumatore e alimentano concorrenza sleale. La prima esigenza è di riordinare la parte normativa del settore, ripristinando il principio “stesso mercato, stesse regole”.

Come mai nonostante la crisi economica e la pandemia la numerica di bar e ristoranti resta così alta?

Lo sviluppo numerico dei pubblici esercizi in parte dipende dagli effetti delle liberalizzazioni che hanno permesso l’apertura di molte nuove attività, con conseguenze positive (maggiore concorrenza, più innovazione, prezzi migliori) e negative (strisciante dequalificazione, sviluppo delle malattie cibo/alcol-correlate, la mala-Movida, le infiltrazioni della malavita, etc.). Il nostro è un settore che favorisce l’autoimprenditorialità, soprattutto tra i giovani, essendo semplificato l’accesso al mercato. Questo comporta che a volte ci sia una certa superficialità e approssimazione nella decisione di avviare un’attività, spesso senza considerare correttamente i rischi, gli impegni e le competenze che servono. Questo spiega perché il settore presenta tassi di mortalità altissimi e un turn-over di aperture e chiusure che non ha eguali. Bisogna vigilare che numeri così alti non si traducano in una progressiva dequalificazione, favorita dai requisiti professionali facilmente recuperabili per avviare un’attività. Servono invece tante conoscenze e qualità sia professionali che umane, anche per evitare i fallimenti che danneggiano poi famiglie, fornitori e dipendenti.

All’estero dominano le grandi catene, in Italia sembrano restare un fenomeno limitato. Per quali ragioni?

Significa che il modello del pubblico esercizio italiano, diffuso e qualificato, con al centro i valori dell’accoglienza, continua a funzionare. Attività nelle quali l’imprenditore è guidato da una forte motivazione personale a fare impresa e dalla volontà di mantenere un rapporto privilegiato con i suoi clienti, spesso supportato da tutta la sua famiglia, improntato sulla fiducia e sulla professionalità.
Queste caratteristiche limitano la diffusione delle catene che, se offrono garanzie di tenuta economica e di affidabilità amministrativa e sanitaria, d’altra  parte non possono offrire lo stesso servizio in termini di rapporto personale e umano con il cliente. Il modello italiano contiene un forte valore sociale, culturale, identitario, storico e consente anche una forte diversificazione dell’offerta, fatta dalle grandi imprese della ristorazione commerciale e dalle piccole attività spesso a gestione familiare. Pensate poi al ruolo che rivestono queste attività come presidio sociale o del territorio, soprattutto in zone di periferia e nei piccoli paesi dove le catene non aprirebbero mai. Dove c’è un bar c’è vita sociale, animazione, relazioni umane, vivibilità, sicurezza, decoro urbano.

La pandemia ha mostrato l’importanza del tema sanificazione nel mondo del fuoricasa. Cosa è rimasto oggi e come è cambiato l’approccio “culturale” al tema?

Gli aspetti igienico sanitari fanno parte del nostro lavoro a tutti gli effetti. Non a caso è prevista una ripetuta formazione obbligatoria per chiunque operi in un pubblico esercizio proprio su questi temi, oltre che per la sicurezza sul lavoro. La questione igienico-sanitaria fa parte a tutti gli effetti della professionalità di un’impresa. Oggi c’è una maggiore attenzione a questi aspetti, una migliore competenza, una crescente aspettativa da parte del consumatore, una rigorosa attività ispettiva da parte degli organi di controllo e al riguardo l’introduzione delle normative haccp ha segnato un’importante svolta, anche come presa di coscienza culturale della sicurezza alimentare e i connessi rischi.

In quali ambiti si concentra maggiormente l’attenzione al tema della sanificazione?

Io parlerei di igiene e pulizia a 360 gradi che riguarda gli ambienti, le attrezzature di lavoro, la salute del personale, la lavorazione, conservazione e somministrazione degli alimenti, deperibili per definizione. Una gestione attenta è sempre necessaria e oggi ancora più gli aspetti igienico-sanitari sono visti come opportunità, per migliorare la qualità dell’offerta, piuttosto che una minaccia, come frequentemente ritenuto in passato, per i rischi dei controlli e delle relative sanzioni. Questa sensibilità è cresciuta anche considerando il maggiore utilizzo del pesce crudo nell’offerta con rischi conosciuti e gestiti anche con una rigorosa attenzione alla catena del freddo.
L’altro aspetto importante della pulizia è che non deve essere più intesa come una attività da fare solo all’apertura o alla chiusura dei locali ma, al contrario, parte integrante e continuativa dell’attività quotidiana. Dipende tutto dal singolo imprenditore, dal suo impegno a promuovere e diffondere l’importanza e il valore dell’ordine e della pulizia, a partire dagli ambienti fino ai servizi igienici. Presentarsi male significa dire al cliente “non sei ben gradito”. L’ambiente però non deve essere solo bello, ma anche pulito.

David Migliori

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